I quattro livelli di Empatia (Metodo “4-Levels Empathy” di Trevisani per le Tecniche di Ascolto Aumentato)

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© Fonte: Estratto dal libro Negoziazione interculturale. Comunicare oltre le barriere culturali.

Empatia e tecniche di ascolto empatico. Verso l’ascolto aumentato.

L’ascolto è una delle abilità più critiche delle competenze umane e lo vediamo negli ambiti della negoziazione e della vendita. Lo stereotipo classico del venditore intento a “parlare sull’altro”, a “vincere nella conversazione”, ad avere sempre l’ultima parola, è sbagliato.

L’approccio empatico prevede una concezione opposta: ascoltare in profondità per capire la mappa mentale del nostro interlocutore, il suo sistema di credenze (belief system), e trovare gli spazi psicologici per l’inserimento di una proposta.

Nel metodo ALM distinguiamo alcuni tipi principali di empatia:

In base agli angoli di osservazione:

  1. Empatia comportamentale: capire i comportamenti e le loro cause, capire il perché del comportamento e le catene di comportamenti correlati.
  2. Empatia emozionale: riuscire a percepire le emozioni vissute dagli altri, capire che emozioni prova il soggetto (quale emozione è in circolo), di quale intensità, quali mix emozionali vive l’interlocutore, come le emozioni si associano a persone, oggetti, fatti, situazioni interne o esterne che l’altro vive.
  3. Empatia relazionale: capire la mappa delle relazioni del soggetto e le sue valenze affettive, capire con chi il soggetto si rapporta volontariamente o per obbligo, con chi deve rapportarsi per decidere, lavorare o vivere, quale è la sua mappa degli “altri significativi”, dei referenti, degli interlocutori, degli “altri rilevanti” e influenzatori che incidono sulle sue decisioni, con chi va d’accordo e chi no, chi incide sulla sua vita professionale (e in alcuni casi personale).
  4. Empatia cognitiva (o dei prototipi cognitivi): capire i prototipi cognitivi attivi in un dato momento del tempo, le credenze, i valori, le ideologie, le strutture mentali che il soggetto possiede e a cui si ancora.

Fig. 20 – Tipologie di empatia nel metodo ALM

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© Modello Copyright dott. Daniele Trevisani, Studio Trevisani Consulting, Estratto dal libro Negoziazione interculturale. Comunicare oltre le barriere culturali.

Impact Factor: Risonanza e applicazioni internazionali del modello di Empatia a 4 Livelli di Trevisani.

Wikipedia in Inlese. Il modello è stato citato nella voce “Empatia” di wikipedia in lingua inglese, con la creazione di un apposito capitolo “Intercultural Empathy”. Di seguito la citazione della voce

Empathy (Intercultural)

Intercultural empathy is the ability to perceive the world as it is perceived by a culture different from the subject’s own. Empathy interculturally regards a variety of issues, such as the approach to time perception (deadlines, temporal precision, perspective time), how to negotiate with people from different cultures and organizations, and be able to integrate all possible difference of communication styles due to differences in culture. The literature distinguishes four levels of empathy, identified by the Italian researcher Daniele Trevisani (2005) that examines the dimensions useful for applying empathic component on the intercultural setting:

  1. Behavioral empathy: understanding the behavior of a different culture and its causes, the ability to understand why the behavior is adopted and the chains of related behaviors.
  2. Emotional empathy: being able to feel the emotions experienced by others, even in cultures different from one’s own, to understand what emotions the culturally different person feels (which emotion is flowing), of which intensity, which are the emotional lives, how emotions are associated to people, objects, events, situations, in private or public aspects of different cultures.
  3. Relational empathy: understanding the map of the relations of the subject and its affective value in the culture of belonging, to understand with whom the subject relates whether voluntarily or compulsorily, who has to deal with that subject in order to decide, in work or life, what is his map of “significant others “, the referents, the interlocutors, “other relevant “and influencers affecting their decisions, who are enemies and friends, who can affects his/her professional and life decisions.
  4. Cognitive empathy (understanding of different cognitive or prototypes): understanding the cognitive prototypes active in a given moment of time in a certain culture in a single person, the beliefs that generate the visible values, ideologies underlying behaviors, identifying the mental structures that the individuals own and which parts are culturally-depending” (Trevisani, 2005).[164]

Altri utilizzi:

The concept of “Intercultural Empathy” has been advanced as a specific subset of Intercultural Communication Competence by the Italian researcher Daniele Trevisani, who proposes four specific dimensions, that allow the specific Intercultural Competence Empathy Traits to be used in Intercultural Training Projects:. Intercultural empathy is the ability to perceive the world as it is perceived by a culture different from the subject’s own. The dimension identified by Trevisani are:

  1. Behavioral empathy (IBE – Intercultural Behaviors Empathy): understanding the behavior of a different culture and their causes, the ability to understand why the behavior is adopted and the chains of related behaviors.
  2. Emotional empathy (IEE – Intercultural Emotions Empathy): being able to feel the emotions experienced by others, even in cultures different from their own, understand what emotions feels the culturally different person (which emotion is flowing), of which intensity, which are the emotional lives, how emotions are associated to people, objects, events, situations, in private or public aspects of different cultures.
  3. Relational empathy (IRE – Intercultural Relationship Empathy): understanding the map of the relations of the subject and its affective value in the culture of belonging, to understand with whom the subject relates whether voluntarily or compulsorily, who has to deal with that subject in order to decide, in work or life, what is his map of “significant others “, the referents, the interlocutors, “other relevant “and influencers affecting their decisions, who are enemies and friends, who can affects his/her professional and life decisions.
  4. Cognitive empathy (ICE – Intercultural Cognitions Empathy): understanding of different cognitive structures, understanding the cognitive prototypes and archetypes active in a given moment of time in a certain culture in a single person, the beliefs that generate the visible values, ideologies underlying behaviors, identifying the mental structures that the individuals own and which parts are culturally-depending” (Daniele Trevisani, 2005).”

Citazione nella voce italiana “Empatia” in Wikipedia, sezione Approccio Interculturale

Empatia

Da Wikipedia, l’enciclopedia libera.

L’empatia è la capacità di comprendere a pieno lo stato d’animo altrui, sia che si tratti di gioia, che di dolore. Empatia significa “sentire dentro”[1], ad esempio “mettersi nei panni dell’altro”, ed è una capacità che fa parte dell’esperienza umana ed animale.

Origini del termine

La parola deriva dal greco “εμπαθεία” (empatéia, a sua volta composta da en-, “dentro”, e pathos, “sofferenza o sentimento”),[2] che veniva usata per indicare il rapporto emozionale di partecipazione che legava l’autore-cantore al suo pubblico.

Il termine empatia è stato coniato da Robert Vischer, studioso di arti figurative e di problematiche estetiche, alla fine dell’Ottocento. Tale termine nasce perciò all’interno di un contesto legato alla riflessione estetica, ove con empatia s’intende la capacità della fantasia umana di cogliere il valore simbolico della natura[3]. Vischer concepì questo termine come capacità di sentir dentro e di con-sentire[4], ossia di percepire la natura esterna, come interna, appartenente al nostro stesso corpo. Rappresenta quindi la capacità di proiettare i sentimenti da noi agli altri e alle cose, che percepiamo.

Il termine empatia verrà utilizzato da Theodor Lipps, il quale lo porrà al centro della sua concezione estetica e filosofica, considerandolo quale attitudine al sentirsi in armonia con l’altro, cogliendone i sentimenti, le emozioni e gli stati d’animo, e quindi in piena sintonia con ciò che egli stesso vive e sente.

Concetto

Il termine “empatia” è stato equiparato a quello tedesco Einfühlung.[5] Coniato, quest’ultimo, dal filosofo Robert Vischer (18471933) e, solo più tardi, tradotto in inglese come empathy. Vischer ne ha anche definito per la prima volta il significato specifico di simpatia estetica. In pratica il sentimento, non altrimenti definibile, che si prova di fronte ad un’opera d’arte. Già suo padre Friedrich Theodor Vischer aveva usato il termine evocativo einfühlen per lo studio dell’architettura applicato secondo i principi dell’Idealismo.[6]

Nelle scienze umane, l’empatia designa un atteggiamento verso gli altri caratterizzato da un impegno di comprensione dell’altro, escludendo ogni attitudine affettiva personale (simpatia, antipatia) e ogni giudizio morale. Fondamentali, in questo contesto, sia gli studi pionieristici di Darwin sulle emozioni e sulla comunicazione mimica delle emozioni, sia gli studi recenti sui neuroni specchio scoperti da Giacomo Rizzolatti, che confermano che l’empatia non nasce da uno sforzo intellettuale, è bensì parte del corredo genetico della specie. Si vedano al proposito anche gli studi di Daniel Stern.

Nell’uso comune, empatia è l’attitudine a offrire la propria attenzione per un’altra persona, mettendo da parte le preoccupazioni e i pensieri personali. La qualità della relazione si basa sull’ascolto non valutativo e si concentra sulla comprensione dei sentimenti e bisogni fondamentali dell’altro.

Il contrario di ’empatia’ è ‘dispatia’ ovvero l’incapacità o il rifiuto di condividere i sentimenti o le sofferenze altrui; il vocabolo ‘dispatia’ non è inserito nei comuni vocabolari ma è utilizzato nei testi di alcuni autori. [senza fonte] In medicina l’empatia è considerata un elemento fondamentale della relazione di cura (ad esempio la relazione medico-paziente) e viene talvolta contrapposta alla simpatia: quest’ultima sarebbe un autentico sentimento doloroso, di sofferenza insieme (da syn- “insieme” e pathos “sofferenza o sentimento”) al paziente e sarebbe quindi un ostacolo ad un giudizio clinico efficace; al contrario l’empatia permetterebbe al curante di comprendere i sentimenti e le sofferenze del paziente, incorporandoli nella costruzione del rapporto di cura ma senza esserne sopraffatto (questo tipo di distinzione non è condiviso da tutti, vedi alla voce simpatia). Sono state anche messe a punto delle scale per la misurazione dell’empatia nella relazione di cura, come la Jefferson Scale of Physician Empathy. L’empatia nella relazione di cura è stata messa in relazione a migliori risultati terapeutici (outcome), migliore soddisfazione del paziente e a minori contenziosi medico-legali tra medici e pazienti.[7]

La nozione di empatia è stata oggetto di numerose riflessioni da parte di intellettuali come Edith Stein, Antoine Chesì, Max Scheler, Sigmund Freud o Carl Rogers.

Il merito dell’introduzione del principio di empatia in psicoanalisi è principalmente dovuto a Heinz Kohut[8]. Il suo principio è applicabile al metodo di raccolta del materiale inconscio[9]. Anche l’alternativa all’applicazione del principio rientra nelle possibilità di cura, quando è ineludibile la necessità di fare i conti con un altro principio, quello di realtà.

Per le sue origini l’empatia ha ragione di essere nell’arte e nelle sue applicazioni. In maniera particolare quando l’arte utilizza le parole per la narrazione. In questo caso non solo è mantenuto il rapporto con la psicologia, ma si ampliano le sue possibilità di intervento. Non tutti possono scolpire o dipingere, ma parlando se non scrivendo qualcosa lo possono raccontare molti. Allora la produzione si sviluppa nel verso artista-psicologo-individuo. Non sono escluse possibilità per i disabili, privilegiando la relazione artista-individuo con la mediazione più cauta dello psicologo. Quest’ultimo non può suggerire all’individuo un percorso di emulazione. Il che non impedisce che l’individuo disabile possa diventare artista a sua volta. A cambiare è la posizione dello psicologo che deve solo rendere possibile la fusione dei vissuti dell’artista con quelli dell’individuo. Di certo lo psicologo dovrebbe mantenere entro limiti accettabili la complessità dell’intervento. Senza che per questo il disabile o l’arte abbiano a soffrirne, anzi si potrebbe dire il contrario.

Il libro di Geoffrey Miller The mating mind difende il punto di vista secondo il quale

« l’empatia si sarebbe sviluppata perché mettersi nei panni dell’altro per sapere cosa pensa e come reagirebbe costituisce un importante fattore di sopravvivenza in un mondo in cui l’uomo è in continua competizione con gli altri uomini. »

L’autore spiega inoltre che la selezione naturale non ha potuto che rinforzarla, poiché influiva sulla sopravvivenza e che alla fine si è sviluppato un sentimento umano che attribuiva una personalità praticamente a tutto ciò che la circondava. Si vede in questo un’origine probabile dell’animismo e più tardi del panteismo.

L’empatia è anche il cuore del processo di comunicazione non violenta secondo Marshall Rosenberg, allievo di Carl Rogers.

Grande interesse è stato posto nella ricerca di corrispondenze biologiche per l’empatia[10]. Sono stati valutati allo scopo i cosiddetti “neuroni-specchio”, attraverso diagnostica per immagini del tipo fRMN[11]. Queste cellule si attivano sia quando un’azione viene effettuata da un individuo sia quando questo stesso individuo osserva la stessa azione effettuata da un altro individuo; questo fenomeno è stato in particolare osservato in alcuni primati[12] Analogamente negli uomini si attiva la medesima area cerebrale nel corso di un’emozione e osservando altre persone nel medesimo stato emozionale[13]. Vi sono altre segnalazioni analoghe[14], anche in psicopatologia[15].

Molti si aspettano dalla biologia una spiegazione definitiva di questa materia. Creature differenti sembrano possedere lo stesso numero di geni. Il genere umano è tuttavia peculiare nel mondo vivente. Sappiamo che la funzione del RNA non consiste solo nella produzione di proteine sotto la guida del DNA. L’RNA ha proprietà di regolazione e programmazione su crescita e funzione cellulare. Il complicato meccanismo d’azione non è del tutto noto e potrebbe spiegare la differente complessità degli esseri viventi. Al riguardo l’impressione è che la biologia sia ancora priva di conoscenze complete.[16] L’empatia in questione coinvolge troppo ampiamente sviluppo e funzione psichica perché questo orientamento di ricerca trovi una conferma in esclusiva. Alternativamente si può fare conto su conoscenze disponibili in altre discipline.

Distinzione tra empatia positiva ed empatia negativa

Con empatia positiva si intende la capacità del soggetto di partecipare pienamente alla gioia altrui; si tratta di un con-gioire e di un saper perciò cogliere la gioia altrui, avendo coscienza della felicità da lui provata. In questo senso l’empatia in termini positivi può essere collegata, in generale a simpatia. La gioia colta attraverso la simpatia è però diversa, rispetto al contenuto, dalla gioia colta tramite l’empatia. Nel primo caso, infatti sarà una gioia non-originaria e quindi meno intensa e durevole rispetto a colui che si presenta più prossimo a questa gioia; mentre nel secondo caso, la gioia colta tramite l’empatia sarà di tipo originario, in quanto il contenuto di ciò che viene provato empatizzando con l’altro avrà lo stesso contenuto, anche se solo un altro modo di datità[17].

Con empatia negativa si concepisce l’esperienza di colui che non riesce a empatizzare rispetto alla gioia altrui, trasferendo nel proprio vissuto originario le sue emozioni. Ciò accade in quanto qualcosa in lui si oppone; un’esperienza presente o passata o la stessa personalità della persona fungono, infatti,da barriera alla sua capacità di cogliere la gioia altrui. L’esempio potrebbe essere quello della perdita di una persona cara, che impedisce all’individuo di far emergere una simpatia verso la gioia dell’altro e quindi di condividerla. In questo caso, infatti, il triste evento e i sentimenti di altrettanto tipo che ne derivano fanno sorgere un conflitto, in quanto l’io si sente diviso tra due parti: vivere della gioia altrui o rimanere nella tristezza che quanto accaduto determina[18].

I diversi approcci

Approccio cognitivo e affettivo

Secondo un approccio prettamente affettivo, l’empatia sarebbe un evento di partecipazione/condivisione del vissuto emotivo dell’altro, seppure in modo vicario.

Psicoterapeuti, e psicoanalisti già dall’inizio del secolo scorso, avevano dato maggiore rilievo al ruolo che l’empatia gioca nelle relazioni interpersonali. In particolare, per chi per primo si è avventurato nello studio dell’empatia, inserendola nell’ambito della psicologia sociale, essa è imitazione spontanea di gesti e posture osservate negli altri, e quindi condivisione dei loro vissuti; d’altro canto per alcuni psicoanalisti, empatizzare significa provare quello che prova l’altro, dando motivo al soggetto di capire ciò che prova egli stesso. Secondo invece la natura di tipo cognitivo l’empatia è considerata la capacità di comprendere il punto di vista dell’altro. Per i cognitivisti, a partire dagli anni ’60, empatizzare con qualcuno significa comprendere i suoi pensieri, le sue intenzioni, riconoscere le sue emozioni in modo accurato e riuscire a vedere la situazione che sta vivendo dalla sua prospettiva[19], pur non negando che vi sia anche una piccola partecipazione dell’emotività che entra in gioco, ma considerandola come un epifenomeno cognitivo.

Dagli anni ’80, empatizzare significa provare un’esperienza di condivisione emotiva e di comprensione dell’esperienza dell’altro, dando quindi spazio ad una componente affettiva ed una cognitiva, in modo tale che esse possano coesistere nel processo empatico. Questa nuova idea di vedere il fenomeno, fa riferimento ai modelli multifattoriali (o multidimensionali) dell’empatia. Malgrado alcuni distinguano due tipi diversi di empatia (cognitiva e emozionale), come A. Mehrabian (1997), vi sono altri studiosi, come N.D. Feshbach, la quale considera l’empatia come un costrutto multicomponenziale. In essa vi è un incontro affettivo (affect match), in cui però si prova certezza nel fatto che ciò che si prova è ciò che prova anche l’altro (condivisione vicaria). Vi è quindi un’integrazione delle due componenti affettiva e cognitiva.

Approccio psicoanalitico

Secondo Nancy Mc Williams l’empatia è uno strumento non solo utile, ma necessario allo psicoanalista di professione per percepire ciò che il paziente prova dal punto di vista emotivo. Capita spesso infatti, che vi siano molti terapeuti che si lamentino di essere poco empatici nei confronti dei propri pazienti, ma in realtà questa loro insicurezza, paura e spesso ostilità verso la clientela, è provocata da affetti poco positivi, che scaturiscono proprio dal loro elevato livello di empatia, il quale permette di entrare talmente nello stato del paziente, da sentirne i sentimenti, a tal punto da confondere i propri con quelli degli altri. Gli affetti dei pazienti quindi, molte volte causano una sofferenza talmente grande allo stesso terapeuta, che a lui risulta difficile indurre negli stessi risposte di uguale intensità. Tutto ciò in realtà è molto positivo, perché in questo modo l’infelicità del paziente diventa percepita in maniera sincera e genuina. Non è quindi frutto di una meccanismo dettato dalla mera compassione professionale, ma tenendo conto dell’unicità della persona si entra autenticamente a far parte del suo vissuto emotivo.

Approccio interculturale ed empatia interculturale

L’empatia interculturale rappresenta la capacità di percepire il mondo come esso viene percepito da una cultura diversa dalla propria. Ad esempio, quale sia la diversa concezione della morte nella cultura Italiana rispetto a quella Indiana (utile per capire come essa generi diversi rituali e comportamenti che altrimenti non troverebbero spiegazione), quale sia l’approccio verso il tempo (scadenze, precisione temporale, prospettiva temporale) in una cultura Nord- Europea o Latina (e quindi come regolarsi nei casi di comunicazione interculturale, mantenendo efficacia anche all’interno di una cultura diversa), come negoziare con persone e organizzazione di culture diverse, e essere capaci di integrare ogni possibile differenza nella propria strategia comunicativa. La letteratura in materia distingue quattro livelli di empatia (Trevisani, 2005) che qualificano le dimensioni utili per applicare una componente empatica sul piano interculturale:

  • Empatia comportamentale: capire i comportamenti di una cultura diversa e le loro cause, capire il perché del comportamento e le catene di comportamenti correlati.
  • Empatia emozionale: riuscire a percepire le emozioni vissute dagli altri, anche in culture diverse dalle proprie, capire che emozioni prova il soggetto (quale emozione è in circolo), di quale intensità, quali mix emozionali vive l’interlocutore, come le emozioni si associano a persone, oggetti, fatti, situazioni interne o esterne che l’altro vive.
  • Empatia relazionale: capire la mappa delle relazioni del soggetto e le sue valenze affettive nella cultura di appartenenza, capire con chi il soggetto si rapporta volontariamente o per obbligo, con chi deve rapportarsi per decidere, lavorare o vivere, quale è la sua mappa degli “altri significativi”, dei referenti, degli interlocutori, degli “altri rilevanti” e influenzatori che incidono sulle sue decisioni, con chi va d’accordo e chi no, chi incide sulla sua vita professionale (e in alcuni casi personale).
  • Empatia cognitiva (o dei prototipi cognitivi): capire i prototipi cognitivi attivi in un dato momento del tempo in una certa cultura, le credenze di cui si compone, i valori, le ideologie, le strutture mentali che il soggetto culturalmente diverso possiede e a cui si ancora” (Trevisani, 2005)

Educazione

Genitori e attaccamento

Già M. L. Hoffman dà rilievo all’empatia, come qualcosa che compare nella consapevolezza del bambino fin dai primi anni di vita. Madre e padre dovrebbero imparare anch’essi ad essere soggetti empatici, soprattutto tramite la sensibilità e non la punizione. Dovrebbero quindi educare ai valori dell’altruismo, dell’apertura verso il prossimo, in modo tale che il figlio impari a capire e condividere il punto di vista degli altri.

In generale, secondo John Bowlby, esiste la cosiddetta teoria dell’attaccamento, per la quale il legame relazionale che si crea tra il bimbo e le figure adulte (caregivers), che si prendono cura di lui, è innato. Inoltre tale legame può essere spiegato ricorrendo alla teoria evoluzionistica, secondo la quale il piccolo può sopravvivere più facilmente se vicino a qualcuno che lo protegge dai pericoli e gli è vicino nei momenti felici e in quelli di difficoltà.

Secondo J. Elicker, M.Englund e L. A. Stroufe, le figure adulte di attaccamento, non solo favoriscono al bambino aspettative sociali positive, ma inoltre fa sì che si rinforzi l’autostima del bambino assieme all’immagine che egli ha di sé.

A scuola

Presupposto essenziale dell’educazione è la trasmissione di un messaggio dal contenuto relazionale-affettivo, perché solo con un clima positivo e di fiducia reciproca c’è un incremento dell’apprendimento negli allievi. Per questo l’insegnante stesso, per essere un buon insegnante deve ricorrere al raggiungimento di un buon livello di empatia con la sua classe.

Cooper ha voluto indagare quale sia il legame fra empatia-insegnante-alunni, e ha notato, che a livello morale, il livello di empatia dell’insegnante influenza enormemente la condivisione di affetti, sentimenti e conoscenze a livello interclasse. È insomma, egli stesso un esempio, una guida, una sorta di catalizzatore dell’apprendimento. L’importante per lui, è tenere conto individualmente di ciascun alunno, ma senza perdere di vista l’insieme, affinché questa sorta di partecipazione influisca anche sugli alunni più bravi, in modo che lo supportino nel suo obiettivo.

Fortuna e Tiberio (1999) hanno determinato dei criteri per stabilire quanto un insegnante sia più empatico di un altro. Nel caso sia più empatico, il docente è contraddistinto da una maggiore propensione a elogiare e premiare gli studenti che se lo meritano, più che a denigrare o svalutare coloro che non riescono a portare a termine un risultato. Inoltre sanno accogliere e guidare gli studenti che esprimono liberamente i propri sentimenti, incentivando le discussioni condivise in aula. Tali maestri non ricorrono all’atteggiamento autoritario, ma sono capaci di valorizzare i propri alunni, facendo emergere la loro creatività. Molto importante è il fatto che gli alunni che collaborano con insegnanti empatici abbiano un livello di autostima più alto e un concetto di sé sociale più positivo, senza contare che anche a livello sociale gli alunni si prestano molto più ad essere collaborativi, perché capiscono qual è il comportamento più rispettoso da tenere all’interno di un gruppo. L’empatia non è presente però in tutti gli insegnanti, essi stessi infatti ritengono che essa sia una sorta di caratteristica individuale più o meno esercitata nel tempo. Essa emerge soprattutto all’interno delle classi poco numerose. Condizione necessaria è che si instauri tra insegnante e alunni un rapporto di fiducia, positivo, cooperativo e volto all’ascolto reciproco.

Empatia nelle relazioni d’amore

L’empatia è un fattore fondamentale nelle relazioni di coppia. Nelle relazioni amorose l’uomo non dà cose materiali, ma se stesso in sostanza; dunque le persone che amano si sentono vive. C’è un desiderio di fondersi con l’altro essere, comprendendolo pienamente, che è proprio una dimensione dell’empatia stessa; pertanto l’empatia facilita il coinvolgimento della crescita all’interno della coppia.

L’empatia può produrre effetti positivi e negativi nella coppia. Nel primo caso può essere utilizzata per risolvere incomprensioni e litigi futili; nel secondo caso invece può danneggiarla evidenziando le differenze che minacciano la continuità della relazione. Infatti l’empatia prolunga l’amore quando non vi è una disparità tra i partner nella comprensione reciproca e nella capacità di sentirsi vicendevolmente.

La misurazione dell’empatia

Poiché non esiste una definizione condivisa di empatia, risulta particolarmente difficile definire quali sono i metodi e gli strumenti maggiormente idonei a misurarla. Alcuni studiosi, infatti, privilegiano l’approccio cognitivo e altri quello affettivo.

È quindi possibile distinguere diverse tecniche di misurazione dell’empatia facendo riferimento agli aspetti che esse considerano: cognitivi, affettivi o multidimensionali.

Strumenti basati su aspetti cognitivi

Tra di essi si possono distinguere due sottocategorie:

  • I test di predizione sociale, che identificano l’empatia come la capacità della persona di fare una stima di ciò che gli altri provano (emozioni e pensieri). Due famosi test di questo tipo sono quello di R. F. Dymond e quello di W. A. Kerr e B. J. Speroff.
  • I test di role taking affettivo, che identificano l’empatia come l’abilità dell’individuo di comprendere la prospettiva dell’altro in una determinata situazione. L’esempio più noto è il Test di Percezione Interpersonale (Interpersonal Perception Test) di H. Borke.

Strumenti basati su aspetti affettivi

In questo caso si possono individuare tre tipologie:

  • Resoconti verbali, cioè risposte che gli individui danno a situazioni stimolo come storie figurate, interviste e questionari.
  • Indici somatici, cioè posture, gesti, sguardi, vocalizzi ed espressioni facciali[20] che le persone assumono nel momento in cui si trovano esposte a situazioni significative dal punto di vista emotivo.
  • Indici psicofisiologici, cioè risposte del sistema nervoso autonomo come, ad esempio, la sudorazione, la vasocostrizione, il battito cardiaco, la temperatura e la conduttanza della pelle[21].

Strumenti basati su aspetti multidimensionali

Secondo alcuni autori non è sufficiente limitarsi a considerare solamente o l’aspetto cognitivo o quello affettivo, ma è necessario utilizzare strumenti più complessi che fanno riferimento ad entrambi. Due esempi significativi sono il Sistema di Punteggio Continuo (Empathy Continuum Scoring System) di Janet Stayer e l’Indice di Reattività Interpersonale (Interpersonal Reactivity Index) di M. H. Davis.

Disturbi

Alcuni disturbi e malattie mentali presentano come sintomi anche carenza di empatia. Mentre in questi tale caratteristica è solo conseguente o parallela ad altre caratteristiche disturbanti, esiste un disturbo comprendente a volte deficit di empatia cognitiva, la sindrome di Asperger; in questa, tale deficit non deve essere interpretato come negativo, ma neutro, in quanto se nei pazienti mancano i risvolti “positivi” dell’empatia, mancano anche quelli “negativi” (schadenfreude, acredine).

La civiltà dell’empatia di Jeremy Rifkin

Secondo i concetti esposti dall’economista e saggista statunitense Jeremy Rifkin in un saggio del 2010 intitolato La civiltà dell’empatia, l’uomo moderno è naturalmente predisposto all’empatia, intesa come capacità di immedesimarsi negli altri – uomini o animali – attraverso i cosiddetti neuroni specchio, così da sentirne le sofferenze, le gioie, le fatiche ecc. Secondo Rifkin «sono circa 20.000 anni che non siamo più homo sapiens sapiens, ma homo empathicus. Leghiamo tra di noi, socializziamo, ci occupiamo l’uno dell’altro, siamo cooperativi […] Ci basiamo su tre colonne portanti per il nostro benessere: la socializzazione, la salute (igiene e sanità, nutrizione), e la creatività. Quando una di queste tre colonne o l’empatia viene a mancare o repressa, vengono fuori i nostri alter-eghi, da cui la violenza, l’egoismo, il narcisismo ecc. […] Poi però, ci pentiamo di aver fatto del male, perché non è proprio nella nostra natura.[22]

Note

  1. ^ Fortuna F., Tiberio A., Il mondo dell’empatia. Campi di applicazione, Franco Angeli 1999, p. 11.
  2. ^ Cf. empatia in Enciclopedia Treccani online.
  3. ^ Giusti E., Locatelli M., Empatia integrata. Analisi umanistica del comportamento, Sovera edizioni. 2007, p. 13.
  4. ^ Giusti E., Locatelli M., Empatia integrata. Analisi umanistica del comportamento, Sovera edizioni. 2007, p. 12.
  5. ^ Cf. Einfühlung in Enciclopedia Treccani online.
  6. ^ Mallgrave and Ikonomou, Introduction, in Empathy, Form and Space. Problems in German Aesthetics, 1873-1893, Santa Monica, 1994, pp. 1-85.
  7. ^ Hojat M. “Empathy in patient care”, Springer 2007, Storia, sviluppo, misurazione ed esito dell’uso dell’empatia nella cura dei pazienti.
  8. ^ Kohut H., “How does analysis cure?” The University of Chigago Press (Chicago, 1984), 82
  9. ^ Galotti A., “Profili: Heinz Kohut” in “Individuazione” anno 11° nº 42 (Genova, dicembre 2002), 4.
  10. ^ Preston e de Waal, 2002
  11. ^ Decety e Jackson, Decety e Lamm, de Vignemont e Singer; 2006
  12. ^ ‘Empathy – Neurological basis’ English http://www.wikipedia.org
  13. ^ Wicker et al., 2003. Keysers et al., Morrison et al., 2004. Singer et al., 2004 e 2006. Jackson et al., 2005 e 2006. Lamm et al., 2007
  14. ^ Bower; Nakahara e Miyashita; 2005
  15. ^ Tunstall, Fahy e McGuire, 2003. Dapretto et al., 2006
  16. ^ Biology’s Big Bang – Unravelling the Secrets of RNA The Economist June 16th, 2007.
  17. ^ Stein E., L’empatia, Franco Angeli, 1986, pp. 68-70
  18. ^ Stein E., L’empatia, Franco Angeli, 1986, pp. 68-70.
  19. ^ Albiero P., Matricardi G., Che cos’è l’empatia, Carocci, 2006, p.11
  20. ^ Bonino S., Lo Coco A., Tani F., Empatia. I processi di condivisione delle emozioni, Giunti Editore, 2010, p. 82
  21. ^ Albiero P., Matricardi G., Che cos’è l’empatia, Carocci, 2006, p.70
  22. ^ Jeremy Rifkin, La civiltà dell’empatia, Milano, Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., 2010. ISBN 978-88-04-59548-9

Bibliografia

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  • Hojat M. “Empathy in Patient care – Antecedents, Development, Measurement and outcomes”, 2007 Springer Science.
  • Jeremy Rifkin, La civiltà dell’empatia, Milano, Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., 2010. ISBN 978-88-04-59548-9.
  • M. Scheler, Essenza e forme della simpatia, FrancoAngeli, Milano 2010
  • A. Pinotti, Empatia. Storia di un’idea da Platone al postumano, Laterza (Roma-Bari) 2011.
  • Capurso M., Relazioni educative e apprendimento. Modelli e strumenti per una didattica significativa, Centro Studi Erickson, 2004
  • Fortuna F., Tiberio A., Il mondo dell’empatia. Campi di applicazione, Franco Angeli 1999
  • Stein E., L’empatia, Franco Angeli, 1986
  • Giusti E., Locatelli M., Empatia integrata. Analisi umanistica del comportamento, Sovera edizioni. 2007
  • Mc Williams N., La diagnosi psicoanalitica. Struttura della personalità e processo clinico, Astrolabio Ubaldini, Roma, 1999
  • Albiero P., Matricardi G., Che cos’è l’empatia, Carocci, 2006
  • Bonino S., Lo Coco A., Tani F., Empatia. I processi di condivisione delle emozioni, Giunti Editore, 2010
  • Gandolfi G.,Il processo di selezione. Strumenti e tecniche (colloquio, test, assessment di selezione). Manuale pratico applicativo con test ed esercitazioni, Franco Angeli, 2004
  • Bolognini S.,L’empatia psicoanalitica, Bollati Boringhieri, 2002

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Zone di lavoro per la crescita personale: tra apatia e perfezionismi inutili

Autore: Daniele Trevisani. Estratto dal volume “Il Potenziale Umano“, Franco Angeli editore, Milano, 2009, Copyright

2.9.  Ricerca dell’eccellenza vs. perfezionismi inutili

Chi si occupa di performance è spesso portato a confondere due piani distinti di una prestazione: la perfezione e l’eccellenza.

Una prestazione eccellente è quella che offre contributi significativi a chi ne deve fruire, mentre una prestazione perfetta è spesso autoreferenziale, forzatamente ed esasperatamente sovraccarica di attenzione, anche nei dettagli nei quali nessuno può percepire un contributo in più o vantaggi ulteriori veri.

La vera eccellenza si misura sul valore vero prodotto, non in finezze snob.

I performer non possono essere danneggiati dalla ricerca della perfezione ma devono essere stimolati dalla ricerca dell’eccellenza. Si tratta di una differenza sottile ma importante.

Perfezionismo e ricerca dell’eccellenza sono atteggiamenti diversi. Il perfezionismo assorbe energie in modo maniacale anche oltre il livello in cui un contributo diventa significativo. Consuma energie inutilmente.

Le attività dei cercatori di perfezione non sono mai finite, mai terminate, mai perfette, esiste sempre una ragione per non completarle o non essere soddisfatti di sè.

L’eccellenza richiede che le energie vengano investite là dove un contributo produce effetti, e sino al livello in cui un miglioramento è reale, percepibile, dotato di senso, creatore di valore buono, e non oltre.

Il perfezionismo non aumenta il successo delle persone, è uno stato di maniacalità. Il successo è determinato dal talento, energia, impegno, non dal perfezionismo o testardaggine verso i dettagli inutili. Il successo avviene nonostante il perfezionismo, non a causa di esso. Come evidenzia Greenspon[1], il perfezionismo è una sorta di malattia:

“Il perfezionismo non è fare del proprio meglio, o ricercare l’eccellenza. È una convinzione emotiva sul fatto che la perfezione sia la sola via all’accettazione personale. È la convinzione emotiva che solo essendo perfetti uno sarà finalmente accettato come persona”.

Un coaching efficace dovrà aiutare il cliente o team ad identificare le soglie di valutazione corrette nelle proprie attività, evitando sia le performance scadenti che quelle dotate di attenzioni maniacali non necessarie.

Localizzare dove si situino le varie attività dell’individuo o del team in questa scala, è fondamentale. Specificamente, localizzare la differenza tra il perfezionismo inutile e l’eccellenza è particolarmente importante nel metodo HPM, vista la presenza della cella “micro-competenze”, che stimola proprio ad andare alla ricerca dei dettagli significativi su cui lavorare. Essa – ricordiamo – non è da non confondere con l’ossessione maniacale sull’inutile e sulla superficie.

Una delle funzioni fondamentali del coaching e della formazione consulenziale consiste proprio nell’aiutare le persone a capire su quali aree è bene investire e su quali invece sia inutile farlo ora, o non valga la pena in quanto il livello raggiunto è già sufficientemente buono.

Le persone non riescono, da sole, il più delle volte, a percepire se stesse con lucidità, a fissare bene i propri scopi, ancora meno a raggiungerli o sviluppare performance ottimali. Esiste una coltre di nebbia che offusca la visione di noi stessi e i nostri veri obiettivi. Guardare oltre non è facile, e anche una sfida, per definizione, non è semplice.

Il coaching, la formazione, la consulenza, sono discipline che – quando fatte con passione e serietà – lavorano sul dare supporto individuale, o a una squadra o intera organizzazione, per aiutarla a percepirsi correttamente, senza lenti sfuocate, a fissare veri obiettivi e fare piazza pulita di falsi obiettivi o presupposti fuorvianti, evolvere e andare verso nuove sfide, crescere, progredire. Perché il senso dell’uomo è questo: la ricerca.

Rispetto alle variabili del modello HPM, ciascuna può essere osservata come uno spazio di crescita con territori in parte conosciuti e raggiunti, ed altri ancora da conquistare ed esplorare.

La domanda non diventa se andare avanti, ma come. Il fatto di andare avanti deve diventare un atteggiamento di fondo, forza di volontà costante.

Un’ultima convinzione e riflessione: l’eccellenza non è materia solo tecnica. L’eccellenza si raggiunge quando si crede in qualcosa.

I puri di cuore, e coloro che lavorano per una causa, fanno quasi sempre cose eccellenti, poiché vi mettono passione.

La tecnica e la formazione ci possono solo aiutare a trasformare la purezza del cuore e la volontà in progetti reali, tangibili e utili.

Vivere, essere puri di cuore, e morire

Per rendere immortale il nostro spirito.

Gustavo Adolfo Rol (1903-1994)

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Copyright, Articolo estratto con il permesso dell’autore, dal volume di Daniele Trevisani “Il Potenziale Umano“, Franco Angeli editore, Milano.2009. Pubblicato con il contributo editoriale di Studio Trevisani Communication Research, Formazione e Coaching.


[1] Greenspon, T. (2008), The Courage to be Imperfect: Tom Greenspon on Perfectionism, Northwestern University, Center for Talent Development.

Potenziamento delle competenze emotive e nuove competenze emotive

Autore: Daniele Trevisani. Estratto dal volume “Il Potenziale Umano“, Franco Angeli editore, Milano, 2009, Copyright

2.5. Le nuove competenze emotive (mood awareness, mood labeling, mood monitoring, cognitive la­beling)

Bisognerebbe tentare di essere felici, non fosse altro per dare l’esempio.

(Jacques Prévert)

L’umore è uno degli elementi più esplicitamente correlati alle energie mentali, e dalle forti capacità “contagiose”, in bene e in male.

Un umore è una condizione emotiva di maggiore durata rispetto al­l’emozione istantanea, e meno collegata ad un singolo evento scatenante.

I tipi di personalità sono invece tratti più duraturi che predispongono a tipi di umore specifici. Lottare contro l’eredità umorale appresa è una sfida nobile.

Secondo Thayer, l’umore è un prodotto di due dimensioni, l’energia e la tensione[1]. Gli umori positivi avvengono in zone di energie elevate e stato di calma, mentre ci sentiamo peggio quando siamo in condizione di basse energie fisiche accompagnate a tensione emotiva.

Bassi livelli di energie mentali sono in genere accompagnati da condizioni umorali negative, tristezza, depressione, mentre alti livelli sono accompagnati da stati positivi, dal rilassamento sino alla gioia e all’euforia.

Ciò che ci interessa maggiormente in termini di coaching analitico è il concetto di mood awareness[2], la consapevolezza dello stato umorale, una capacità specifica ed allenabile, composta da mood labeling (saper etichettare lo stato emotivo in corso) e mood monitoring (saper monitorare l’anda­mento del proprio umore, coscientemente, tener traccia delle variazioni).

Il labeling, in particolare, rappresenta il ponte essenziale tra il sentimento interno e la possibilità di comunicarlo.

Comunicare ad altri come ci si sente è importantissimo, ed è tema di cui si occupano molte ricerche, che giungono a inquadrare il concetto di empatia interna[3], o la capacità di capirsi. Questa dipende anche dalla capacità di trovare etichette (verbali) per gli stati cognitivi e per i sentimenti vissuti.

Conoscere i propri stati e non negarli è essenziale, ma poi serve la capacità di descriverli e – soprattutto –  l’occasione fisica, vera, di parlarne a qualcuno che ci ascolti.  Trovare oggi chi sia in grado da farci da contenitore emotivo è qualcosa di estremamente raro, ma non è su questo che mi voglio soffermare ora. Il fattore tecnico è che anche quando questa occasione di ascolto accade, non siamo sufficientemente capaci di esprimere i nostri veri sentimenti con precisione. Di questo ogni coach, leader o psicologo dovrebbe tenere conto.

Più in generale, la capacità di riuscire a dare nome e descrizione ai processi mentali in corso (cognitive labeling skills) permette di crescere psicologicamente.

Infatti, non è per nulla scontato sapere come ci si sente, riuscire a riflettervi sopra analiticamente, o riuscire a comunicarlo, prima che gli umori diventino distruttivi. Molti subiscono lo stato umorale passivamente, o non riescono a condividerlo, o essere ascoltati, e in questo modo non arrivano a scardinare i meccanismi che lo generano, o replicare stati positivi.

Le energie mentali producono specifici stati umorali. Nella fig. 2 vediamo diverse tipologie.

La domanda primaria rispetto allo schema evidenziato è “come ti senti?” L’attività di scavo deve riguardare invece il “perché ti senti così?”

All’interno delle risposte devono essere notati e scoperti i meccanismi di ragionamento che depotenziano e corrodono l’umore, le azioni e stili di vita che avvizziscono la persona, gli stili cognitivi disfunzionali, le aree su cui lavorare, e tutte le azioni invece positive da consolidare e rinforzare.

La psicoenergetica nel metodo HPM si occupa dei fattori psicologici che producono tali stati soggettivi o livelli di umore.

In questo lavoro, non è possibile astenersi dal giudizio, non è possibile evitare di applicare valori e criteri di riferimento personali.

In questo, il coaching differenzia sostanzialmente dalla psicoterapia non direttiva, in quanto arriva a dare giudizi di valore e indicare strade da perseguire.


[1] Thayer, R. E. (1989), The biopsychology of mood and arousal, Oxford University Press, New York, NY.

Thayer, R. E. (1996), The origin of everyday moods: Managing energy, tension and stress, Oxford University Press, New York, NY.

Thayer, R. E. (2001), Calm Energy, Oxford University Press, New York, NY.

[2] Woodhouse, S. S., Gelso, C.J. (2008), Volunteer Client Adult Attachment, Memory for In-Session Emotion, and Mood Awareness: An Affect Regulation Perspective, Journal of Counseling Psychology, v. 55, n. 2, pp. 197-208, Apr.

[3] Jackson, E. (1986), Internal Empathy, Cognitive Labeling, and Demonstrated Empathy, Journal of Humanistic Education and Development, v. 24, n. 3, pp. 104-115, Mar.

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Copyright, Articolo estratto con il permesso dell’autore, dal volume di Daniele Trevisani “Il Potenziale Umano“, Franco Angeli editore, Milano.2009. Pubblicato con il contributo editoriale di Studio Trevisani Communication Research, Formazione e Coaching.

Operazioni centrate sugli effetti

I principi basilari delle Effects-Based Operations

hpm1Copyright, dal volume di Trevisani, Daniele (2007), Regie di Cambiamento. Approcci integrati alle risorse umane, allo sviluppo personale e organizzativo, e al coaching. FrancoAngeli, Milano. Diritti di riproduzione riservati. Sono possibili gli utilizzi per fini formativi, didattici e di ricerca, previa citazione dell’autore e della fonte. Altri materiali inerenti le Regie al sitowww.studiotrevisani.it/hpm1. Vedi inoltre  Scheda sintetica del volume su IBS

Attivare le Effect-Based Operations

Nelle imprese, per agire su problemi critici occorre atteggiamento “militare e militante”, l’esatto contrario del lassismo aziendale imperante.

Per costruire un atteggiamento “militante” verso il cambiamento non sono indispensabili salotti intellettuali, ma vere e proprie war-room, dove i target di variazione e di cambiamento vengono sottoposti ad analisi, e gli interventi a progettazione strategica, e revisione periodica, assidua, impegnata. La discussione intellettuale è importante ma serve per costruire modelli, per svolgere analisi illuminate, e non in sede operativa e tattica.

Nella war-room, o situation-room, i problemi vengono sottoposti ad analisi cercando di identificare le azioni che possono risolverli. Si tratta di un approccio basato sulla gestione delle emergenze, e tuttavia risulta utile appropriarsi del senso di coordinamento interforze che ritroviamo in questi ambienti.

La gestione di problemi critici (attentati, ostaggi, crisi politiche) fa emergere con grande forza la consapevolezza che una sola azione è insufficiente, ma occorre sinergia tra azioni. Di questo principio usato in termini di emergenza dobbiamo appropriarci anche per gestire le non-emergenze e le azioni aziendali.

Sia le emergenze che le operazioni di sviluppo fuori-emergenza fanno leva sulla Information Superiority (IS), la capacità di una Joint Task Force (JTF) di possedere informazioni comprensibili, multidimensionali, in tempo reale, congiunte ai dati di scenario, o ad ogni altro dato sensibile che può modificare la strategia.

La Information Superiority (IS) non è un concetto statico, predeterminato, quantificabile, ma è soprattutto una capacità o abilità. È connessa inestricabilmente con la situazione specifica, e determinata dalla missione, dall’ambiente, e dal bisogno di informazione che ogni progetto e momento aziendale porta con se.

Le war-room e le situation-room servono proprio a fare analisi di scenario, a far convergere le informazioni e a prendere decisioni in modo non improvvisato.

Uno dei principi che si fa strada con maggiore forza nel campo delle operazioni tattiche, militari e politiche, sono le effect-based operations (EBO): operazioni centrate sugli effetti). Nelle EBO, ogni azione di cambiamento viene valutata in termini di effetti o attivazioni che può produrre, da confrontare con gli effetti tattici e strategici che si intendono ottenere.

Esempio di diversi tipi di effetto da produrre: creare, consolidare, rimuovere

Il concetto cardine delle effect-based operations è il cosiddetto end-state o stato finale, una dichiarazione che e riguarda qualche aspetto della realtà e può essere solamente vera o falsa. Ad esempio, la frase “nella provincia di XYZ non si verificheranno più atti di violenza contro la popolazione da parte di bande armate” è uno stato finale di destinazione, i cui presupposti e requisiti richiedono ben più di una singola azione, ma una serie di eventi convergenti, sia militari che soprattutto politici, diplomatici, di sviluppo sociale e commerciale, di educazione e costruzione di infrastrutture.

La consapevolezza che le azioni di per sè non valgono nulla se non comparate agli effetti che produrranno ha cambiato il modo di gestire le operazioni sia militari che politiche, e le crisi correlate. Una singola professionalità non può essere sufficiente, mentre una joint task force (task force interdisciplinare sul cambiamento) può farlo. Questo approccio può e deve entrare anche nella gestione del cambiamento personale e organizzativo.

In termini militari, le EBO risultano un concetto giù ampiamente assimilato dai vertici più consapevoli del bisogno di differenziare strumenti da effetti:

Lo sviluppo di operazioni “effect-based” ha quale fine il conseguimento di un preciso obiettivo strategico mediante l’effettuazione di diversificate attività nel corso di tutte le possibili fasi di una operazione (pre-crisi, “combat”, post-conflittuale, ecc.).

In ciascuna fase, il raggiungimento degli effetti richiesti richiederà l’individuazione dei punti di vulnerabilità chiave avversari ed il loro contrasto con i più idonei strumenti d’impiego, che potrebbero essere anche non militari. In sostanza, le operazioni future saranno focalizzate più sui risultati che si vogliono conseguire che sui sistemi e mezzi disponibili per conseguirli[1].

Questi concetti sono validi in ogni campo del cambiamento organizzativo. Ad esempio, realizzare un Master Aziendale di per sè è una azione, non un effetto. L’effetto desiderato può essere quello di ottenere maggiore coesione e condivisione di concetti tra gli high-potentials dell’azienda, e ridurre il rischio di fuga di cervelli. Se è così è, dovranno essere prodotte altre azioni, oltre al Master, per consolidare l’effetto che si cerca di ottenere.

Potranno essere condotti progetti di scambio tra ruoli (job-rotation) in cui le persone riescano a capire come funzionano altri reparti, possono essere messe in piedi iniziative di tutoraggio (tutoring) e altri progetti motivazionali e finalizzati a sconfiggere il dropout. In ogni caso, aumentare la coesione e ridurre il dropout sono gli effetti, il Master e le iniziative sono operations.

Ogni iniziativa ha ripercussioni, siano esse positive o negative, e queste iniziative hanno maggiore impatto se sono in grado di innescare una cascata di effetti. Le iniziative in grado di generare una cascata di effetti sono più efficaci delle iniziative che limitano la loro portata ad un singolo ambito[2].

Ed inoltre, le iniziative con effetti cumulativi e sinergici sono più efficaci di iniziative che non si connettono l’una con l’altra[3]. Facciamo un esempio pratico: se vogliamo cambiare l’aria di una camera (effetto target: avere aria pulita), possiamo aprire la finestra, e attendere che dalla finestra entri aria fresca ed esca aria stagnante. Oppure possiamo cercare di cambiare aria aprendo la porta. Se però porta e finestra sono su due lati opposti, e apriamo entrambe, si può innescare un flusso d’aria molto più forte, e il ricambio sarà estremamente più rapido dell’apertura di una sola delle due. Gli effetti cumulativi e sinergici sono presenti in ogni processo di cambiamento.

Questo riguarda ad esempio la congiunzione tra iniziative politiche e iniziative militari[4], nella consapevolezza che queste ultime non sono mai sufficienti a risolvere i problemi se manca la consapevolezza di cosa vogliamo ottenere, di quale visione si voglia raggiungere.

La nuova consapevolezza raggiunta da alcuni dei vertici politici e militari è che il successo o fallimento si misurano in termini cognitivi[5] (di risultati psicologici raggiunti), e non di carri armati distrutti o nemici uccisi.

L’uccisione di un nemico poteva (forse) avere senso nel medioevo o nella guerra fredda, ma non in un pianeta che cerca di raggiungere il suo potenziale, e di farlo con il minor numero di vite umane distrutte, quando altre armi ben più potenti (la comunicazione, la negoziazione, l’educazione) possono portare ad effetti superiori. Il fine ultimo non è la morte ma la vita, il benessere di tutti.

Questo è uno dei motivi che hanno portato molti eserciti ad introdurre unità PsyOps (Psychological Operations) accanto alle unità combat tradizionali, per poter determinare effetti non più e non solo con le armi ma per raggiungere i risultati a prescindere dagli strumenti che si è abituati ad usare.

Nelle imprese, troviamo lo stesso problema: la distruzione di un concorrente può non essere più un obiettivo vero (quanti altri concorrenti possono nascere? … e, passeremo la vita a distruggere?). La sola lotta alla concorrenza rischia di far perdere di vista la necessità di innovare da dentro, di fare ricerca e sviluppo, di crescere radicalmente, nella mentalità e nelle capacità manageriali.

Questo passaggio, tuttavia, è delicato ed assolutamente in fase embrionale, sia in campo militare che nelle organizzazioni civili e nelle imprese.

Principio 25 – Effect-Based Operations

Il cambiamento positivo viene favorito dai seguenti fattori:

  • Approccio EBO (Effect-Based Operations): la centratura delle operazioni e delle energie mentali va ri-direzionata sugli effetti finali da produrre (end-state), non sugli strumenti disponibili, evitando di confondere strumenti ed effetti finali desiderati; le azioni devono essere ispirate ad una visione.
  • Cascata di effetti: la preferenza va data ad azioni che sono in grado di produrre altri effetti a cascata e correlati, scatenando una sequenza di cambiamento, rispetto ad azioni che limitano il loro effetto su un solo target.
  • Effetti cumulativi: devono essere inquadrate le stratificazioni di azioni e le sequenze di avvenimenti che sono in grado di portare il sistema verso lo stato finale da raggiungere, consapevoli del fatto che l’effetto finale in molte situazioni si ottiene solo cumulando i micro-effetti di più strategie convergenti.

Materiale Copyright, estratto dal volume di Daniele Trevisani “Regie di Cambiamento”, Franco Angeli editore, 2007.


[1] Di Paola, G. (2005), The Chief of the Italian Defence Staff Strategic Concept (Il Concetto Strategico del Capo di  Stato Maggiore della Difesa), Roma, Ministero della Difesa.

 

[2] In termini militari, riportiamo la seguente definizione sugli effetti a cascata, nella formulazione originale in inglese: Cascading Nature of Effects – Indirect effects can ripple through an enemy target system, often influencing other target systems as well. Typically this can influence nodes that are critical to multiple target systems. Most often this cascading of indirect effects flows from higher to lower levels of war. As an example, when destroying an enemy central headquarters, the effects cascade down through the enemy echelons to ultimately disrupt numerous tactical units on the battlefield. Da: USJFCOM (2007), Joint Forces Command Glossary. U.S. Joint Forces Command.

[3] Cumulative Nature of Effects – Cumulative effects result from the aggregate of many direct or indirect effects. This may occur at the same or at different levels of war as the contributing lower-order effects are achieved. However, cumulative effects typically occur at higher levels of war. As an example, increased operational-level air superiority would be the cumulative effect of destroying numerous surface-to-air-missile (SAM) sites at the tactical level. Da: USJFCOM (2007). Joint Forces Command Glossary. U.S. Joint Forces Command

[4] Vedi Alberts, David S. e Hayes, Richard E. (2003), Power to the Edge: Command and Control in the Information Age, DoD Command and Control Research Program (CCRP).

[5] Vedi ad esempio la definizione di Smith: Effects-based operations can be described as operations in the cognitive domain because that is where human beings react to stimuli, come to an understanding of a situation, and decide on a response. In Smith, Edward (2002), Effect-Based Operations. Applying Network Centric Warfare in Peace, Crisis and War,  DoD Command and Control Research Program (CCRP).

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Copyright, dal volume di Trevisani, Daniele (2007), Regie di Cambiamento. Approcci integrati alle risorse umane, allo sviluppo personale e organizzativo, e al coaching. FrancoAngeli, Milano. Diritti di riproduzione riservati. Sono possibili gli utilizzi per fini formativi, didattici e di ricerca, previa citazione dell’autore e della fonte. Altri materiali inerenti le Regie al sitowww.studiotrevisani.it/hpm1. Vedi inoltre  Scheda sintetica del volume su IBS


Dalla Spirale del Silenzio in avanti… questioni di repressione conversazionale

…vorrei condividere con altri un commento fatto con un amico, partito dalla questione della repressione in Birmania… il cancro non è solo la, nasce anche nelle nostre aziende, e nelle nostre case… è la Spirale del Silenzio in formato attivo, se bastassero le lezioni della storia, invece non bastano mai… la repressione parte con la limitazione conversazionale… che poi diventa repressione conversazionale, che poi diventa repressione fisica…

… se solo i nostri docenti di sociologia, scienze della comunicazione e semiologi si occupassero del fenomeno invece che di questioni irrilevanti per la società umana… se solo applicassero le loro conoscenze verso i probelmi veri come questo… ricordo un ex collega che fece un dottorato di ricerca in sociologia con tesi sui notai italiani, ….  i notai, capite, il vero problema di un sociologo, i notai… e adesso insegna all’Università di Bologna, pazzesco… la gente muore nel mondo, disuguaglianze pazzesche, ma noi paghiamo gente per qualcuno che decide di applicari a studiare il grave problema della sociologia dei Notai… una classse davvero disagiata… possiamo o no dirlo?… o abbiamo paura…

… tutto nasce dalla repressione conversazionale, un fenomeno scientificamente noto, vi prego di esaminare e capire questo fatto fondamentale… ne ho scritto un pezzo sul blog di Repubblica, per chi vuole vedere http://news.kataweb.it/la-spirale-del-silenzio-in-azienda-e-non-solo-301783

Video con concetti base sugli stili comunicativi, e applicazioni alle riunioni aziendali e altri contesti lavorativi

dr. Daniele Trevisani, www.danieletrevisani.com – micro-video  riassuntivo di alcuni concetti per una buona comunicazione:

Per fare della formazione seria sulla comunicazione vera in azienda riflettiamo su diversi punti. Ne segnalo alcuni tra i tantissimi:

– è inutile investire tanto in comunicazione esterna (es: pubblicità) e non curare le comunicazioni vere di ogni giorno. Quando le comunicazioni interne reali (email, telefonate, incontri, colloqui, riunioni), tra persone, tra manager, e nei team, e coi clienti, sono inefficaci, l’azienda ne soffre ogni giorno. Le decisioni sono rallentate, le persone perdono tempo e motivazione, e ogni azione aziendale diventa lenta e faticosa e persino dannosa. Chi vuole risultati deve smettere di considerare la comunicazione come “pubblicità esterna” ed entrare nella mentalità della attenzione alla qualità in ogni micro-comunicazione quotidiana, sia interna che verso il cliente, in ogni contatto quotidiano.

– ogni comunicazione è caratterizzata da contenuti (il “cosa”) e da uno stile comunicativo (es: poetico, assertivo, pessimista, ottimista, prolisso, burocratico, decisionista, politichese, etc).

precisione e chiarezza del linguaggio sono fondamentali per non perdere tempo in azienda. Per ogni situazione occorre saper utilizzare stili diversi, es: poetico-visionario in una apertura motivazionale, concreto e pratico nella fase operativa

– per trasferire bene le informazioni occorre applicare concetti di “economia della comunicazione” (quante risorse uso, per ottenere cosa) – quanto impegno le mie risorse e le risorse altrui, e con che effetti

– dobbiamo distinguere i messaggi di tipo emotivo (che richiedono tempi diversi ed economie diverse) dai messaggi di tipo strettamente informativo, chiarire se vogliamo fare un colloquio in profondità con un collaboratore, o dare un semplice imput

aziendalese e politichese diventano non solo linguaggi, ma abiti mentali e atteggiamenti in cui le persone si nascondono per “fare altro”, esibirsi, o “fare melina”, anzichè preoccuparsi di trasmettere informazioni o condividere messaggi veri

– nelle riunioni aziendali notiamo spesso “diseconomie della comunicazione”, caratterizzati da uscite di tema frequenti, divagazioni, invasioni di atteggiamenti e temi improduttivi, in cui si impiegano 4 ore in chiacchiere inutili e auto-rappresentazioni, monologhi e show personali, per prendere decisioni o fare analisi che richiederebbero 20 minuti.

Vedi altre info e risorse in:

http://www.studiotrevisani.it (sito istituzionale in Italiano)

http://www.medialab-research.com/rivista.htm (iscrizione alla rivista gratuita di comunicazione Communication Research)

http://studiotrevisani.wordpress.com – blog con video, schede e risorse per la psicologia della comunicazione, formazione e management