Teorie dei giochi e teorie dei ruoli nella leadership conversazionale

Articolo estratto dal testo “Negoziazione Interculturale. Comunicazione oltre le barriere culturali“, copyright FrancoAngeli Editore e Daniele Trevisani, pubblicato con il permesso dell’autore.

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Mantenere la leadership all’interno di una conversazione richiede la capacità di gestire i giochi conversazionali, così come quelli di ruolo. Evitare che l’interlocutore, o un altro membro del gruppo nel quale avviene la negoziazione, usurpi la nostra posizione, riuscendo a bilanciare i rapporti di potere, sono solo alcune delle skills fondamentali per raggiungere il dialogo cooperativo. Procediamo quindi nell’approfondire l’argomento.

Il ruolo del leader richiede una forte attenzione ai giochi comunicativi in corso, con la consapevolezza che nelle organizzazioni e nella negoziazione i messaggi non sono prodotti per fini poetici ma soprattutto per gestire il potere.

La leadership del negoziatore comprende la capacità di:

  • realizzare specifiche offerte di tema: buttare sul tavolo della conversazione argomenti non casuali, per vedere quale sia la reazione degli interlocutori; osservare se raccolgono il tema o lo lasciano andare, e altre possibili mosse dell’interlocutore (sminuire, accentuare, aggrapparsi al tema, valorizzarlo, ignorarlo);
  • gestire il formato conversazionale: quale clima predomina durante la negoziazione? Siamo di fronte ad formato di “interrogatorio”, di “ricerca di una soluzione”, di “confessione reciproca”, o cos’altro? Se durante una negoziazione di vendita il venditore si accorge che il buyer sta adottando il formato “interrogatorio”, la leadership conversazionale prevede di farlo notare, con frasi del tipo “questa conversazione assomiglia più ad un interrogatorio che ad una ricerca di soluzioni, noi vorremmo provare a dare al nostro incontro un taglio diverso, forse più produttivo”;
  • ribilanciare i rapporti di potere: nella vendita soprattutto si assiste ad un “non detto” nel quale chi acquista detiene il potere della negoziazione. Questo potere viene esercitato tramite atteggiamenti tipici di chi detiene il potere: controllo sui contenuti, decidere chi parla, di cosa si parla, e come si parla. A volte questo sfocia nella arroganza immotivata. La leadership conversazionale prevede la capacità di riformulare i giochi, ribilanciare gli atteggiamenti, riportare i due negoziatori sullo stesso piano, per non essere schiacciati.

Al di là di quale sia il gruppo di riferimento aziendale o sociale, la leadership deve essere considerata un meta-ruolo che investe trasversalmente un soggetto all’interno di un gruppo di individui.

L’assunzione del ruolo è evidente nella modalità di comunicazione adottata, e la sua mancanza è altrettanto evidente.

Come evidenzia Tonfoni, ciascun ruolo di carica di aspettative e di comportamenti di ruolo. Il mancato rispetto delle aspettative e dei comportamenti di ruolo è evidente proprio nella conversazione interindividuale e di gruppo in cui il soggetto non agisce come “individuo privato” ma come “interprete del ruolo di leader”.

La leadership richiede quindi attenzione alle dinamiche comunicative di ascolto in cui si manifestano:

  • attacchi al ruolo, da parte di membri del team;
  • assunzioni di ruolo improprie, da parte di membri del team o di altri soggetti;

I comportamenti comunicativi correlati sono quindi:

  • segnalazione della percezione dell’attacco al ruolo, da parte del leader;
  • esplicitazione dei fatti, far emergere che si è capito cosa sta accadendo.
  • difesa del ruolo;
  • negoziazione dei ruoli reciproci.

Il dialogo cooperativo prevede una forte concentrazione di mosse positive, di apertura, un ricorso a SIM di analisi e condivisione, e l’eliminazione di mosse di attacco al ruolo e all’identità altrui.

Il dialogo cooperativo si compone principalmente di:

  • ascolto, evitazione dell’interruzione;
  • spostamenti strategici tra macro-finalità dei progetti e dettagli, con preferenza per le macro-finalità e la ricerca di una mission condivisa; considerare le divergenze sui dettagli come passeggere, recuperabili, e andare alla ricerca di una visione comune e di ciò che accomuna;
  • ricerca di un approccio win-win;
  • atteggiamenti di apertura ed evitazione del giudizio altrui (sospensione del giudizio sino alla comprensione completa).
libro "Negoziazione Interculturale" di Daniele Trevisani

Per approfondimenti vedi:

Analisi degli stati conversazionali ed economia cognitiva

Articolo estratto dal testo “Negoziazione Interculturale. Comunicazione oltre le barriere culturali“, copyright FrancoAngeli Editore e Daniele Trevisani, pubblicato con il permesso dell’autore.

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In questa seconda parte continuiamo a parlare di leadership conversazionale spostando l’obbiettivo sulla gestione degli stati conversazionali e sulle prioritization skills dei negoziatori interculturali.

Possiamo riconoscere il tipo di comunicazione in corso all’interno di un gruppo, attraverso un’attenta lettura dei segnali. Con un adeguato addestramento ed elevata sensibilità naturale, è possibile cogliere in poche battute quali siano gli “stati conversazionali” che predominano una comunicazione.

Per “stati conversazionali” intendiamo qui una sequenza di mosse comunicative riconducibile a dei prototipi, ad esempio:

  1. la confessione,
  2. la seduzione,
  3. le stilettate reciproche (conflitto strisciante),
  4. la “conversazione da spogliatoio”,
  5. l’autocelebrazione,
  6. la ricerca di aiuto,
  7. ecc…

Le conversazioni si spostano continuamente da uno stato all’altro, e possiamo avere conversazioni che partono in termini di “confessione” per poi spostarsi in seduzione, e scivolare in autocelebrazione, poi ancora in accusa.

Durante una negoziazione interculturale, il negoziatore deve essere consapevole del fatto che certi formati conversazionali – quali il gioco e lo scherzo – sono difficilmente traducibili tra culture diverse, per cui è facilissimo fare gaffes, essere umoristici o “simpatici” forzatamente. Altri formati conversazionali, quali l’analisi scientifica di un problema, o il “parlare tra simili” (es: confrontarsi tra “padri di famiglia”) possono far emergere differenze culturali ma con meno margini di errore.

Ogni conversazione (negoziale e non) procede comunque lungo un format finché un altro e diverso format non prende piede.

Il ruolo della leadership conversazionale è esattamente quello di spostare i format e dirigerli ove sia più produttivo.

L’economia cognitiva si occupa invece dell’utilizzo efficiente delle risorse mentali. Una riunione interculturale pone problemi elevati di utilizzo delle risorse, poiché esse vanno divise e “assorbite” sia dal dibattito sui contenuti, che dalla difficoltà comunicativa generata dalla differenza linguistica e culturale.

Possiamo quindi indicare che l’utilizzo del tempo e delle risorse diventa una meta-competenza del negoziatore interculturale.

Le prioritization skills interculturali prevedono che il negoziatore si impegni attivamente per definire quali priorità trattare, agendo quindi anche sul formato della negoziazione, così come per impostare i termini di base da trattare. Definire quali priorità trattare significa anche fare scelte molto concrete: di cosa parlare prima, di cosa parlare dopo. Come parlarne, con quale approccio, con quale atteggiamento.

Altre priorità riguardano la fissazione di un clima conversazionale positivo: senza il clima adeguato ogni discussione sui contenuti diviene più difficile.

Il tema dell’economia della comunicazione richiede quindi:

  1. capacità di riconoscere le risorse limitate disponibili per la negoziazione (consapevolezza delle risorse);
  2. capacità di capire i confini di tempo disponibili (consapevolezza dei tempi);
  3. capacità di muoversi entro tali confini decidendo i contenuti più appropriati e riconoscendo quelli dispersivi (consapevolezza dei contenuti strategici);
  4. capacità di gestire le fasi e tempi degli incontri (consapevolezza delle sequenze di interazione)
  5. capacità di agire sugli stili comunicativi adeguati alle diverse fasi, e sugli atteggiamenti sottostanti gli stili di relazione (consapevolezza contestuale degli stili comunicativi).
libro "Negoziazione Interculturale" di Daniele Trevisani

Per approfondimenti vedi:

Comunicazione efficace vs. Incomunicabilità. Analisi della Comunicazione con il Modello delle Quattro Distanze

Il modello delle Quattro Distanze della Comunicazione ci parla di un insieme variegato di variabili che incidono sulla comunicazione e la rendono di qualità oppure pessima.

È bene iniziare l’esposizione più approfondita del modello con un quadro d’insieme, per poi passare all’analisi di ogni singolo punto e di ogni singola “Distanza”.

Il modello d’insieme può essere così rappresentato:

analisi della comunicazione e modello delle quattro distanze

Le quattro grandi distanze relazionali

Copyright dal testo “Parliamoci Chiaro. il modello delle Quattro Distanze per una comunicazione efficace e costruttiva“, Gribaudo-Feltrinelli editore

crescita personale libri parliamoci chiaro

La distanza tra persone è un fatto fisico, ma la fisicità è nulla rispetto alla distanza psicologica. Nel modello delle Quattro Distanze vengono esaminati i principali fattori che creano distanza relazionale, raggruppandoli in quattro grandi classi, utili per qualsiasi intento, sia di costruzione di rapporti ma anche di identificazione di incomunicabilità esistenti.

Queste grandi classi sono:

  1. le distanze e differenze di ruolo e identità tra comunicatori, incluse le differenze di personalità o stato d’animo;
  2. le distanze e differenze nei codici e stili comunicativi;
  3. le distanze e differenze valoriali, di atteggiamenti e credenze possedute;
  4. le distanze e differenze nei diversi tipi di vissuto personale, sia fisico che emozionale.

Una sola di queste variabili è sufficiente a creare incomunicabilità. La combinazione di queste è ancora più difficile da gestire, perché arriva a creare distanza relazionale forte.

La distanza relazionale è un fatto reale. Possiamo essere vicinissimi ad una persona (ad esempio in ascensore, o ad un semaforo) e disinteressarci completamente della vita di quella persona, e lui/lei della nostra. Quella persona sarà a noi “distante”.

Ognuno andrà per la sua strada, ognuno nella sua vita.

Succede anche nella strada. Passiamo a fianco di una persona in un marciapiede camminando, o in ascensore. Un lampo fugace di vicinanza fisica, ma nessun vero collante relazionale, anzi, il gelo. Spesso, nemmeno uno sguardo.

Puoi abitare in un palazzo con decine di famiglie e non essere andato oltre il “buongiorno” con qualcuno di questi, e con alcuni nemmeno quello. In altre situazioni, vi sono persone con le quali senti di poter raccontare tutto di te, o tu stesso ti metti a disposizione totale per un ascolto profondo, vero, interessato.

A quale grado di distanza siamo quindi con le persone cui teniamo? E a quale distanza relazionale siamo con le persone con cui dobbiamo o vogliamo lavorare, che si tratti di anni o di un singolo progetto di poche ore?

Anche quando un progetto è singolo e limitato nel tempo, nasce giocoforza il fenomeno della comunicazione nel team. In questo team ci saranno diversità, ci saranno persone che dovranno lavorare fianco a fianco, persone di provenienze professionali diverse, di culture diverse, ideologie diverse, codici comunicativi solo in parte condivisi, e il rischio di fallimento e di conflitto – se non anticipato – diventa molto alto.

L’attrito relazionale è un dato di fatto, anche nelle coppie di fidanzati, di sposi, di amici, di colleghi, e tra figli e genitori, e aumenta all’aumentare delle quattro distanze. È questo attrito che, portato all’ennesima potenza, ha generato nella storia disastri, lotte, guerre e devastazioni.

Se riconosciuto presto, invece, può essere gestito, e le relazioni umane possono prendere una piega completamente diversa, andando verso la Comunicazione Costruttiva, la comunicazione che sviluppa progetti, idee e valore. Possono anche generare una Comunicazione Positiva, relazionalmente nutriente, calda, accogliente, emotivamente pulita e arricchente. E allo stesso tempo, in queste condizioni, l’ascolto diventa un piacere, non un compito quasi impossibile.

A volte viviamo rapporti che solo apparentemente sono di vicinanza psicologica, ma che in realtà dimostrano tutta la loro falsità non appena un incidente critico fa emergere la reale distanza siderale di valori nei rapporti umani.

Tale distanza può essere ampiamente inconsapevole: possiamo credere di essere vicini ed essere in realtà molto lontani. Un falso indicatore di vicinanza è ad esempio la confidenza, l’eliminazione del “Lei” o di altre modalità di distanziamento linguistico.

Tutti sappiamo, però, come si possa conversare amabilmente con qualcuno che sembra amico e in realtà non lo è.

Anche matrimoni e amicizie vivono momenti di apparente distanza o apparente lontananza, le persone si “avvicinano” e si “allontanano” relazionalmente, come comete, in traiettorie a volte molto prevedibili, a volte le persone compaiono nella nostra vita come meteore brillanti nel cielo per poi sparire.

Quindi mettiamo in chiaro che la distanza non è solo questione di apparenza ma qualcosa di più profondo.

La distanza relazionale esiste, crea incomunicabilità, e, con incomunicabilità in corso, nessun progetto può davvero fare lunga strada.

 

Principio 1 – Gli elementi che incidono sulla comunicazione efficace e sull’incomunicabilità

La comunicazione diventa difficile quando:

  1. le persone non accettano i ruoli reciproci nella comunicazione, manca accettazione nelle identità reciproche che le persone vogliono assumere, le parti non si riconoscono e non si legittimano come controparti accettate;

  2. le distanze nei codici e stili comunicativi sono ampie, rendendo tecnicamente difficile o impossibile la comprensione dei significati della comunicazione stessa. I linguaggi sono poco comprensibili, vi sono termini sconosciuti, e significati non condivisi;

  3. vi sono divergenze valoriali, di atteggiamenti e valori, sia superficiali che in profondità, e il grado di differenza (quanta differenza) si amplifica tanto più quanto la comunicazione tocca i valori fondamentali di uno o più comunicatori, sino al punto che la posizione altrui venga percepita come inconcepibile e contraria rispetto ai propri valori;

  4. le parti sono caratterizzate da diversi tipi di vissuto personale, sia fisico che emozionale, con incremento dell’incomunicabilità al crescere di questa diversità, e non possiedono esperienze comuni né fisiche né emotive che possano fare da facilitatore.

 

La comunicazione diventa positiva ed efficace quanto più:

  1. le persone accettano i ruoli reciproci nella comunicazione, si crea accettazione nelle identità reciproche che le persone si danno (“accetto il tuo ruolo per come tu me lo presenti”), le parti si riconoscono e si legittimano reciprocamente come degne di un rapporto proficuo;
  2. le distanze nei codici e stili comunicativi sono ridotte o si riducono, progressivamente, rendendo tecnicamente più semplice la comprensione dei significati, basata su segni condivisi, linguaggi comprensibili, e significati condivisi;
  3. vi sono poche divergenze valoriali, o queste sono solo superficiali, mentre nei valori profondi si trova condivisione.
  4. le parti sono caratterizzate da un certo grado di “Common Ground” (terreno comune) nel vissuto personale, sia fisico che emozionale, e questo aumenta grazie ad esperienze condivise, rendendo la comunicazione più positiva ed efficace.

 

È abbastanza comprensibile e naturale il fatto che al crescere della distanza psicologica tra persone, aumenti l’incomunicabilità, ma prendere coscienza di questo non è sufficiente.

Occorre capire dove mettere mano per lavorare sull’incomunicabilità. Su quali variabili agire quindi? Come capire la distanza reale che esiste in un certo momento? Come ridurla?

In che ambiti è importante lavorare sulle Quattro Distanze? Questo tema merita un approfondimento.

Copyright dal testo “Parliamoci Chiaro. il modello delle Quattro Distanze per una comunicazione efficace e costruttiva“, Gribaudo-Feltrinelli editore

Le linee d’azione (Action Lines) per la vendita e le strategie del negoziatore

© Articolo di: dott. Daniele Trevisani www.danieletrevisani.it, Direttore Studio Trevisani Formazione e Consulenza e Studio Comunicazione Aziendale, articolo estratto con modifiche dell’autore dal libro “Strategic Selling”, Franco Angeli editore. Per approfondimenti è possibile iscriversi al canale YouTube dedicato ai video di Vendita del dott. Daniele Trevisani – e alla rivista online di Formazione “Communication Research e Potenziale Umano” da questo link

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Il concetto di Action Line è equiparabile alla “linea di azione”, la tattica, la ricerca della “mossa giusta”, della sequenza di mosse azzeccate, così come nell’analisi delle possibili “mosse sbagliate”.

Come concetto, è applicabile in diverse modalità:

 

  • fare action line significa preparasi ad un incontro ed esplorare le possibili opzioni comportamentali da applicare, soprattutto tramite role-playing,
  • significa analizzare le possibili reazioni che possono avere gli interlocutori (modello Se-Allora, If- Then),
  • significa demolire le tattiche dell’interlocutore prima ancora che esse avvengano.

 

Dobbiamo distinguere (1) le action line di preparazione agli incontri, e (2) le action line dell’istante, le singole mosse che accadono durante le interazioni reali.

Come una strategia dell’istante, o tattica comportamentale, la action line richiede sia base teorica che capacità di adattamento rapido.

La linea di azione esprime il senso tattico delle mosse comportamentali e comunicative che vengono condotte da un attore per avvicinarsi al proprio obiettivo.

Il tema di fondo delle action line è la capacità di essere flessibili e adattare le proprie skills alle variazioni situazionali anche istantanee (strategia dell’istante: cosa faccio ora).

Le scuole di vendita e negoziazione rigide prescrivono generalmente comportamenti standard e formule da apprendere, mentre il metodo delle Action Line focalizza il valore dell’ascolto, delle tecniche conversazionali e della capacità di essere se stessi, “vivi” e non ripetitivi nell’applicarle.

Nel teatro, soprattutto nel metodo Stanislavskij, troviamo la stessa impostazione:

Una delle cose che colpisce di più studiando Stanislavskij e il suo “metodo” è la coscienza che egli aveva dei pericoli di ogni cristallizzazione, di ogni irrigidimento teorico. Stanislavskij aveva troppa pratica viva del teatro per non accorgersi che è proprio l’irrigidimento, il fermarsi alle “ricette” facilmente riproducibili e immediatamente trasformabili in “luoghi comuni”, a costituire uno dei maggiori pericoli per chi fa pratica teatrale[1].

Marketing per la vendita e Action Line

Applicare il marketing strategico alla vendita significa soprattutto:

  • capire come adeguare i prodotti ai cambiamenti di mercato,
  • come trasmettere identità e senso della missione,
  • quali strategie di segmentazione e posizionamento adottare,
  • quali strategie pubblicitarie e di direct-marketing,
  • come costruire la rete di vendita, le politiche distributive
  • quali politiche di prezzo adottare.

A queste attività vengono dedicate ampie risorse e tempo.

Tutto questo investimento, tuttavia, può essere distrutto da negoziazioni sbagliate.

Nelle aziende, la preparazione alla negoziazione risulta ampiamente sottovalutata. Si presta grande attenzione ai budget pubblicitari ma poi si trascurano i micro-comportamenti nei riguardi del cliente, fatti di singole azioni, incontri, telefonate, frasi e corrispondenza.

La storia del comportamento tenuto dall’azienda nei riguardi del cliente nasce dall’impatto delle micro-comunicazioni e forma quella “Customer Experience” così importante per creare fidelizzazione.

Cerchiamo quindi di dare corpo – nella negoziazione – a tale approccio di attenzione ai dettagli, definendo una terminologia che ci permetta di affrontare tecnicamente l’argomento.

Ciascuna storia individuale del rapporto tra organizzazione e cliente è suddivisibile in Steps, ovvero fasi temporali successive durante le quali si articola il rapporto. L’insieme dei passi attuati costituisce un percorso della linea di azione (Path).

L’insieme degli Steps la cui responsabilità ricade sull’impresa è definibile come linea di azione – Action Line. Essa ci pone il problema della scelta tra alternative e corsi d’azione diverse,  in quanto è sempre possibile attuare altre tipologie di step, producendo esiti diversi (maggiormente negativi o maggiormente positivi).

 

Principio 3 – Definizione ottimale degli steps nelle action line

Il successo della negoziazione dipende:

  • dalla capacità di pensare a quali sequenze di azioni (steps) siano ottimali per rapportarsi al cliente, partendo dalla volontà iniziale sino all’esito finale;

  • dalla capacità di creare percorsi di azione (path) soppesati in termini di probabilità di successo e insuccesso;

  • dalla capacità di valutare quali punti di rottura, trappole o fallimenti siano possibili nella linea di azione seguita.

 

Dall’analisi delle Action Lines che hanno avuto esito negativo è possibile ricavare preziosi elementi per evitare futuri errori e per correggere le proprie strategie (lessons learned: lezioni apprese).

L’analisi delle Action Lines già accadute permette di rivedere la propria impostazione sul mercato in termini di comportamenti quotidiani.

Nell’analisi degli eventi negativi (critical incidents negativi) è possibile determinare in quale punto esattamente si sia verificato il Breakdown, o dove sia localizzata la trappola relazionale (Trap).

E’ possibile identificare le eventuali azioni di recupero (Recovery) in caso di fallimento della linea di azione, valutando la loro fattibilità e la loro convenienza.

Lo stesso tipo di analisi è possibile anche sulle Action Lines che hanno avuto esiti positivi (critical incidents positivi).

In caso di esito negoziale positivo, il metodo ALM prevede il ricorso ad una analisi degli atteggiamenti positivi, piuttosto che alla riproposizione esatta dei comportamenti in altre sedi.

Dobbiamo qui differenziare tra atteggiamenti positivi e comportamenti positivi. Non è possibile generalizzare sempre i comportamenti di successo al fine di riproporli in altre situazioni, in quanto – in realtà – esistono sfumature diverse in ogni tipo di rapporto tra persone e tra imprese. Gli atteggiamenti positivi invece hanno maggiore possibilità di essere generalizzati.

 

Principio 4 – Rivisitazione critica delle Action Lines passate, analisi dei critical incidents positivi e negativi e costruzione delle best-practices

Il successo della negoziazione dipende:

  • dalla capacità di riflettere sui casi positivi (critical incidents positivi) e trarre da essi prassi da replicare (best practices), analizzando gli atteggiamenti e steps attuati e i motivi del successo;
  • dalla capacità di riflettere sui casi negativi (critical incidents negativi) e trarre da essi insegnamenti sui possibili errori strategici, modi di approccio, e motivi dell’insuccesso;
  • dalla capacità di trasformare le analisi sul passato in conoscenza operativa per il futuro.

 

Nel metodo ALM, come già sostenuto, più che regolette semplici è necessario dedicare tempo ed energie alla riflessione sui casi di successo e insuccesso, estrapolandone una teoria basata sulla realtà dei fatti.

La decostruzione e ricostruzione del passato è fondamentale per attivare una crescita personale, poiché spesso il flusso di esperienza (flow of experience) sovrasta l’individuo, porta le persone a vivere istante dopo istante in un turbine lavorativo e non fermarsi ad analizzare quanto accade.

Le analisi retrospettive di maggiore efficacia richiedono la presenza di un counselor o coach e devono comunque essere svolte, almeno, con un confronto tra colleghi preparati a farlo, per poter confrontare opinioni e posizioni e non realizzare analisi da un unico punto di vista. La sola voce interiore non basta, per crescere è indispensabile il confronto.

Una distinzione necessaria nelle Action Lines è quella tra linea di azione (LDA) acquisitiva, che opera sul cliente potenziale già identificato (prospect) e LDA fidelizzativa sul cliente già acquisito.

La LDA sul prospect si pone il problema di come giungere alla acquisizione del cliente attraverso passi di contatto iniziale, contatti pre-negoziali e contatti negoziali, sino alla conclusione o chiusura.

La LDA sul cliente già acquisito riguarda invece il problema della Retention, ovvero della fidelizzazione del cliente, riducendo il rischio di perdita del cliente da attacchi della concorrenza e errori interni.

 

© Articolo di: dott. Daniele Trevisani www.danieletrevisani.it, Direttore Studio Trevisani Formazione e Consulenza e Studio Comunicazione Aziendale, articolo estratto con modifiche dell’autore dal libro “Strategic Selling”, Franco Angeli editore. Per approfondimenti è possibile iscriversi al canale YouTube dedicato ai video di Vendita del dott. Daniele Trevisani – e alla rivista online di Formazione “Communication Research e Potenziale Umano” da questo link

[1] Failla, 2005.

Il “personal branding”

Articolo a cura della dott.ssa Ginevra Bighini, www.negoziazioneinterculturale.wordpress.com; mentoring a cura del dott. Daniele Trevisani, www.studiotrevisani.it

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Parlare di personal branding oggi non è una novità. Al contrario possiamo affermare con tranquillità che il termine sia largamente sdoganato, nonostante se ne parli con sempre maggiore superficialità, senza approfondirne tecniche e metodi.

Nell’articolo qui di seguito, oltre a definire la valenza semantica del termine e a raccontarne la storia, cercheremo di elencare sinteticamente le strategie più diffuse.

Il significato più contemporaneo del termine personal branding risale ad un articolo del 1997 di Tom Peters, mentre il concetto di self-branding (o brand individuale) si ricollega al testo Positioning: The Battle for your Mind”, scritto da Al Ries e Jack Trout nel 1980. Qui si conia per la prima volta, in questo tipo di contesto, il verbo to brand, che letteralmente significa “Marchiare”.

Per quanto riguarda il suo significato attuale invece, questi si esprime perfettamente attraverso le parole del sito http://www.insidemarketing.it:

“Con l’espressione Personal branding si fa riferimento a quel complesso di strategie messe in atto per promuovere se stessi, le proprie competenze ed esperienze, la propria carriera alla stregua appunto di un brand.”(1)

Unendo i due significati possiamo sintetizzare che il personal branding non è altro che un modo per pubblicizzarsi, veicolando un’immagine di sé in grado di fare breccia nella mente altrui, quasi come se marchiassimo a fuoco la parte migliore di noi, così da distinguere noi stessi dal resto della massa di professionisti che opera nel nostro campo.

Ma quali sono le strategie da adottare per essere un brand di successo?

Innanzitutto bisogna sottolineare che fare personal branding non significa soltanto avere un blog o postare sui social. Di fatto è possibile diventare oggetto di marketing tramite canali esterni alla rete, come giornali, cartelloni pubblicitari, ecc…

Bisogna anche ammettere che i canali cosiddetti offline sono molto costosi e non ci danno grande libertà di movimento, nonostante appaiano generalmente più autorevoli.

Ecco perché il web è il canale più sfruttato: è libero, costa poco e raggiunge un pubblico più ampio.

Detto ciò, vediamo passo per passo alcuni punti strategici di personal branding:

1 – Costruire la propria brand identity

La brand identity (o identità di brand) è la chiave per raggiungere il successo. Essa si costituisce di tutti i valori, competenze e obiettivi, che formano il contenuto distintivo strategico da veicolare per permettere alla nostra immagine, e quindi al nostro brand, di spiccare sugli altri. Chiaramente, diventando noi stessi il brand, è importante essere veri e onesti, rimanendo fedeli ai propri ideali, altrimenti si creerebbe un contrasto tra “noi in quanto persone” e “noi in quanto brand” vanificando l’efficacia di tutto il lavoro di personal branding.

2 – Curare i dettagli

Una volta definiti i tratti distintivi che vogliamo diffondere, è necessario soffermarsi sui punti di forza e sui dettagli apparentemente marginali capaci in qualche modo di attirare l’attenzione dell’utenza. Questi dettagli possono essere collegati alla nostra vita privata o a quella professionale, e quindi essere più o meno legati al contesto, ma il segreto sta sempre nell’essere originali, poiché l’obiettivo rimane comunque quello di distinguersi dal resto dei competitors.

3 – Scegliere attraverso quale mezzo e con che stile comunicare il nostro brand

Molto semplicemente, come già spiegato in precedenza, bisogna decidere se sfruttare canali online, come blog, social network, ecc…, meno dispendiosi e di più ampia distribuzione, oppure canali offline. La scelta dipende dal tipo di strategia comunicativa che si è deciso di adottare per raggiungere gli obiettivi prefissati e il tipo di pubblico a noi più congeniale. Una volta scelto il mezzo è importante non dimenticarsi dello stile, che potrà essere più spontaneo ed empatico o più distaccato e professionale, sempre in base al “cosa” desideriamo valorizzare di noi.

4 – Creare una rete di contatti

Infine è fondamentale utilizzare gli stessi mezzi di comunicazione scelti per creare una rete di contatti utili a diffondere le nostre idee e il nostro brand. Costruire delle relazioni solide e sfruttare il passaparola sono due degli elementi alla base di qualsiasi strategia di personal branding e non è possibile prescindere da essi. Di fatto anche il brand più interessante del mondo, senza nessuno disposto a veicolarlo, non sarà in grado di superare le mura di casa.

5 – diffondere un messaggio tramite emozioni

Ora che abbiamo i mezzi e le persone, non dobbiamo fare altro che esprimere il nostro messaggio facendo leva sulle emozioni. Uno stile da non sottovalutare in questo senso è lo storytelling , che permette di raccontarsi in maniera più diretta e introspettiva, comunicando sogni, progetti e aspirazioni, così da creare empatia nel pubblico e diventarne oggetto di ispirazione.

Questi sono solo alcuni dei metodi da cui prendere spunto per avviare un processo di personal branding. Come specificato all’inizio, questa disciplina strategica, se così vogliamo chiamarla, è molto più complessa di quello che appare e servono anni di esperienza per poterla gestire con abilità ed efficacia, ma così come per molte altre discipline, anche per il personal branding possiamo far valere il detto: “la pratica vale più della grammatica”.

personal branding

(1) https://www.insidemarketing.it/glossario/definizione/personal-branding/

Articolo a cura della dott.ssa Ginevra Bighini, www.negoziazioneinterculturale.wordpress.com; mentoring a cura del dott. Daniele Trevisani, www.studiotrevisani.it

Atti linguistici e rapporti di leadership conversazionale

Articolo estratto dal testo “Negoziazione Interculturale. Comunicazione oltre le barriere culturali“, copyright FrancoAngeli Editore e Daniele Trevisani, pubblicato con il permesso dell’autore.

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Nelle prossime pagine sintetizzeremo i concetti di atto linguistico e di leadership conversazionale, collocandoli successivamente all’interno della negoziazione interculturale.

Ogni “emissione dotata di significato”, all’interno di una negoziazione, costituisce un atto linguistico.

Gli atti linguistici si inseriscono sempre all’interno di linee d’azione comunicativa e contribuiscono a fissare il tipo di relazione in corso (conflittuale, collaborativa, e altre).

Anche altri atti comunicativi assumono significato, ad esempio le emissioni che utilizzano sistemi non verbali (movimento del corpo, gesti, sguardi) e paralinguistici (toni, pause, silenzi, intonazioni).

Vediamo prima il punto più generale. All’interno delle ricerche sulla psicolinguistica, il Relativismo Linguistico ha dimostrato come ogni lingua segmenti il mondo e consenta di vederne aspetti particolari.

Cosa significa che una lingua “segmenta il mondo”? In sostanza, le categorie linguistiche guidano la percezione, focalizzando la mente umana su strati di realtà specifici e togliendo l’attenzione da altri.

La precisione linguistica quindi dipende anche dalla disponibilità di categorie e vocabolari specifici.

Emerge quindi una prima opera che consiste nell’educare l’interlocutore a percepire le differenze. Se un esquimese vuole riuscire a far capire all’europeo la differenza tra i dieci tipi di neve, dovrà associare la parola (etichetta verbale) utilizzata a qualche rappresentazione riconoscibile (una fotografia, o la dimostrazione pratica). Allo stesso tempo, per poter negoziare, è necessario far capire all’altro la diversità tra la sua cultura e la nostra cultura.

Ciascuno dei negoziatori interculturali deve essere disponibile ad apprendere, disponibile a formarsi grazie all’incontro con l’altro. La negoziazione su prodotti nuovi o su progetti mai attuati prima, richiede una fase di acculturazione, che metta la controparte in grado di orientarsi, di capire, e di scegliere consapevolmente all’interno di differenze che prima non poteva percepire.

Come la lingua “segmenta il mondo”, la conversazione “segmenta il gruppo” facendo emergere i rapporti di forza e di leadership. Se il linguaggio contribuisce a costruire la percezione del mondo, la conversazione contribuisce a creare i rapporti di potere e di leadership all’interno dei gruppi. È sufficiente che un richiamo venga disatteso, per generare una drastica caduta di punti nel leadership score (grado di leadership conversazionale del soggetto).

La stratificazione di atti linguistici, mosse conversazionali e relative ripercussioni produce la leadership reale non iscritta nei documenti aziendali o del gruppo, una leadership che si crea nella realtà quotidiana delle conversazioni.

In ciascuno dei diversi momenti comunicativi che avvengono nei gruppi si possono attivare diversi sistemi di comunicazione.

Gli scambi di messaggi che osserviamo tra persone o in un gruppo sono solo la punta dell’iceberg di processi relazionali più forti, i Sistemi Interpersonali Motivazionali (SIM). Alcuni dei SIM più riconosciuti sono:

  • attaccamento;
  • seduzione;
  • agonismo;
  • cooperazione.

Il conflitto e i malfunzionamenti dei gruppi partono quindi dal sistema di comunicazione osservabile nella dinamica del gruppo.

La leadership interculturale consiste nel prendere le redini degli incontri interculturali, e riuscire a dirigerli con consapevolezza e tatto culturale. Non significa assolutamente dominio sull’altro, ma consiste in un tentativo di gestione volontaria dei flussi comunicativi, visti dall’alto di una maggiore consapevolezza.

È possibile ad esempio riconoscere quale dei Sistemi Motivazionali si stia generando nella negoziazione, e cercare di modificarlo.

Il principio di cooperazione agisce come collante principale del gruppo, ma anche altri sistemi possono attivarsi per aumentarne il dinamismo.

Continua nel prossimo articolo…

libro "Negoziazione Interculturale" di Daniele Trevisani

Per approfondimenti vedi:

“Locus-of-control” e costruzione dell’identità

Articolo estratto dal testo “Negoziazione Interculturale. Comunicazione oltre le barriere culturali“, copyright FrancoAngeli Editore e Daniele Trevisani, pubblicato con il permesso dell’autore.

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La negoziazione non si basa su una conversazione libera, come un fiume incontrollato di pensieri espressi a parole, ma va gestita e condotta. Tutto deve essere pilotato in maniera strategica facendo precedere alla negoziazione di contenuti, una negoziazione dell’identità. Vediamone quindi qui di seguito i vari aspetti.

Ogni azienda è in grado di incidere attivamente sul destino delle proprie negoziazioni, anche se non di determinarlo del tutto. Le negoziazioni non avvengono nell’astratto, ma nel concreto. Riappropriarsi della capacità di incidere sul proprio destino, sul presente e futuro (alimentare il focus of control interno) è un tema fondamentale, che tocca anche il modo con cui vogliamo dare un’impronta alle negoziazioni e ai rapporti umani.

Per agire sul conflitto bisogna riconoscere che stiamo negoziando, che siamo diversi, è che il conflitto è potenzialmente alle porte se non anticipato. La diversità deve essere esplicitata prima, per non dare ripercussioni dopo.

Quando una negoziazione si avvia in modo latente, la presa di coscienza negoziale richiede che il negoziatore si ponga alcune domande:

  • Siamo entrambi consapevoli di stare negoziando?
  • Stiamo negoziando dettagli o impostazioni di fondo?
  • Sto negoziando con la persona giusta?
  • È il setting adeguato (tempo e luogo) dato l’argomento che stiamo affrontando? È il luogo giusto? È il momento giusto?
  • Su quali fattori posso agire per impostare la negoziazione? Quali sono sotto il mio controllo? Come posso ricondurre i fattori esterni e situazionali entro la mia sfera di controllo?

L’analisi della conversazione permette di definire quali mosse e dispositivi comunicativi gli interlocutori usano per definire e negoziare la propria identità.

Nel metodo ALM, è riconosciuto sin dalle prime opere la necessità di suddividere gli obiettivi strategici di una comunicazione negoziale, distinguendo soprattutto tra:

  • fissazione dell’identità e vendita dell’identità: essere riconosciuti come i soggetti adeguati per la risoluzione del problema, creare una percezione di valore nel fornitore come soggetto e nella persona o ruolo incontrato;
  • fissazione del value mix (mix di valore) e vendita del prodotto o soluzione: creare una percezione di valore nei dettagli dell’offerta.

L’impressions management interculturale è l’arte e/o capacità di suscitare impressioni positive sul proprio ruolo (da non confondere con il millantare un ruolo o un’importanza), per poter superare i filtri negoziali. Per poterlo praticare è necessaria consapevolezza dei propri punti di forza e della propria identità, delle unicità che si possiedono, del valore reale, e la capacità di farli emergere nella comunicazione.

Allo stesso modo, nessuna negoziazione può avere successo se non vengono chiariti i confini delle identità reciproche, i confini dei ruoli, e le modalità per avviare un dialogo cooperativo.

Durante la negoziazione interculturale è necessario dedicare mosse conversazionali specifiche alla costruzione della propria identità, riuscendo a far emergere nell’altro la percezione del valore che tale identità assume nel contesto della propria cultura. Ogni soggetto, infatti, attribuisce identità secondo i propri schemi culturali.

Non è possibile dare per scontato che le persone riconoscano automaticamente le reciproche identità. “Chi sono io” e “Chi sei tu” sono due degli aspetti più trascurati nella negoziazione interculturale.

Nella negoziazione tra aziende, si entra in negoziazione debole o inconsapevole già dai primi momenti di incontro.

Il fatto di decidere di incontrarsi presso la “nostra” azienda, presso la “loro”, o in una sede neutra (e dove), è già negoziare.

Parliamo di negoziazione debole non perché essa sia di poca importanza, ma perché risulta debolmente percepita come reale momento di negoziazione. La sua importanza reale è invece altissima, poiché fissa le impressioni iniziali (imprinting dell’immagine personale e aziendale) e le posizioni di partenza.

Il vero problema è che le situazioni “deboli”- contatti preliminari, email, telefonate interlocutorie, scambi di messaggi logistici – non sono spesso riconosciute come vere negoziazioni, e rischiano di venire sottovalutate.

La negoziazione forte o esplicita riguarda invece le situazioni in cui entrambi i soggetti hanno sancito ufficialmente il fatto che una negoziazione sia in corso, hanno messo in piedi formalismi e meccanismi di contrattazione formale, tavoli di negoziazione, piattaforme negoziali o altri strumenti di negoziazione palese e istituzionalizzata.

La negoziazione tra aziende assume spesso il formato di uno scontro tra identità, modi di essere e valori. Nessuna azienda possiede realmente le stesse culture di un’azienda seppure simile, gli stessi modelli di comportamento. Le diversità aumentano ancora maggiormente quando le distanze fisiche e culturali si fanno ampie, come nei contesti intercontinentali e interetnici.

libro "Negoziazione Interculturale" di Daniele Trevisani

Per approfondimenti vedi:

Mosse conversazionali e difficoltà nel dialogo tra aziende

Articolo estratto dal testo “Negoziazione Interculturale. Comunicazione oltre le barriere culturali“, copyright FrancoAngeli Editore e Daniele Trevisani, pubblicato con il permesso dell’autore.

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Nelle prossime righe potremo osservare quanto è complesso il dialogo tra aziende e come l’attenzione alle proprie mosse conversazionali e a quelle dell’interlocutore possa evitare conflitti e portare al successo negoziale.

La difficoltà comunicativa esiste quotidianamente nel dialogo tra aziende, vediamo questo caso di micro-dialogo tra C – un consulente e I – un imprenditore, i quali si trovano presso l’azienda di I una mattina su richiesta di I stesso:

C1: Quindi lei mi diceva che vorrebbe fare un intervento di formazione sulla Sua rete di vendita?

I1: Sì, vorrei fare un pò di sana formazione.

C2: Su quali problemi vorrebbe agire? Quali sono le problematiche principali dei venditori al momento?

I2: Beh, sa, è gente preparata…con esperienza… ho persone di alto livello…

C3: Uhm, bene, ha già un’idea precisa dei tempi in cui vorrebbe fare la formazione?

I3: Beh, penso che in un paio di giorni si potrebbe fare no? Oppure possiamo fare alcuni pomeriggi. Quante ore servono secondo Lei?

C4: Mah, forse bisognerebbe prima cercare di capire quale impostazione dare all’intervento. Lei è interessato ad un intervento sulle risorse umane personalizzato e dedicato solo a voi, o a far partecipare i suoi venditori ad un corso a catalogo in cui i suoi siano “mescolati” ad altri partecipanti?

I4: Mahh, che differenza ci sarebbe?

C5: Beh, sicuramente la personalizzazione è diversa.

I5: Voi quanti corsi sulla vendita avete fatto ad aziende nel nostro settore?

C6: Guardi, abbiamo fatto molti corsi, non credo però che sia importante in quale settore, la formazione sulla vendita è una formazione sulla comunicazione, i temi da trattare sono di psicologia della comunicazione, comunque. Quale prodotto si venda non è in realtà così significativo.

I6: Ma, sa, io non vorrei un corso troppo teorico, mi serve qualcosa di applicato al mio settore, avete un elenco delle vostre referenze?

Ogni brano di questa conversazione può essere analizzato come un insieme di mosse conversazionali. Ogni mossa porta con se un’enorme mole di significati e di sistemi di significazione (sistemi culturali sottostanti).

Nella conversazione, C si concentra sulla analisi delle esigenze del cliente, mentre I attua un depistaggio conversazionale che sposta il focus sul curriculum di C, e lo distoglie sui suoi bisogni di formazione. C cerca quindi di riportare il dialogo sull’asse dell’impostazione da dare al corso, (tentativo di ricentraggio conversazionale), mentre I – nella mossa I6 – continua nelle sue manovre di spostamento della conversazione dal bisogno formativo della sua rete vendita all’analisi del curriculum del consulente.

Proseguendo, le divergenze culturali di fondo emergeranno con ancora maggiore forza, sino alla possibile conclusione, che sarà un conflitto aperto di culture, un nulla di fatto, o un accordo.

Tuttavia, senza “smontare” la comunicazione (in questo caso, riconoscere la valenza culturale e strategica delle mosse) l’esito sarà un probabile fallimento.

La negoziazione interculturale richiede quindi una grande attenzione alle mosse conversazionali, prima ancora che a grandi strategie negoziali che possono fallire se male applicate sul campo. La negoziazione tra aziende si misura nel teatro vero della comunicazione che è la conversazione negoziale.

Ancora una volta sottolineiamo come il successo nella negoziazione, o meglio la probabilità di successo, possa essere accresciuta solo da un’adeguata preparazione sulle communication skills interculturali, che comprenda sia l’analisi dei meccanismi della comunicazione efficace (elemento trasversale ad ogni negoziazione), che il suo adattamento cross-culturale (specifico rispetto alla cultura con la quale si deve interagire).

Una regola va adattata al contesto in cui si applica (spazio, tempo, luogo, situazione, persone) e da cui è scaturita. I mutamenti culturali oggi sono così rapidi che la reale nuova competenza non è quella derivante da regolette comportamentali dell’ultimo minuto, ma da una competenza aumentata e allargata a tutto il processo comunicativo e dalla capacità di adattare le proprie risorse caso per caso.

libro "Negoziazione Interculturale" di Daniele Trevisani

Per approfondimenti vedi:

Tecniche di gestione della conversazione interculturale

Articolo estratto dal testo “Negoziazione Interculturale. Comunicazione oltre le barriere culturali“, copyright FrancoAngeli Editore e Daniele Trevisani, pubblicato con il permesso dell’autore.

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Proseguendo con l’analisi della conversazione, in questo articolo ci soffermeremo su vari aspetti della conversazione interculturale e su come gestirla, poiché un buon negoziatore deve sempre mantenere il controllo della situazione, senza lasciare al caso neanche il più piccolo dettaglio conversazionale.

La comunicazione interculturale, sia sul piano diplomatico che di business, richiede una particolare attenzione alle regole di cortesia, al rispetto dei ruoli, al riconoscimento delle identità altrui.

Le culture occidentali urbane tendono a “ridurre le distanze” sul piano interpersonale, a “dare del tu”, a trattare le persone da eguali. Sotto il profilo antropologico, tali culture sono definite a basso contesto – low context cultures. In molte culture di business e diplomatiche, invece, così come in molte nazioni, o nelle culture generazionali precedenti, la cultura è generalmente ad alto contesto (high-context culture); è importante il rispetto delle distanze e dei ruoli, o il mantenimento di confini finché la controparte non offra il permesso di passare ad un livello più amicale, meno formale. Nelle culture ad alto contesto, inoltre, si dà più spazio all’allusione, piuttosto che alle affermazioni dirette come avviene nelle culture a basso contesto, più informali. Inoltre, le culture ad alto contesto utilizzano maggiormente parabole, proverbi, understatements (affermazioni di tono basso, poco “urlate” o “blatanti”) e antifrasi (affermazioni in negativo). Le culture a basso contesto invece privilegiano modalità di rapporto più dirette (dirsi le cose in faccia, essere espliciti), sono prevalentemente “loud” (toni alti, overstatement), privilegiano frasi positive.

Cortesia e rispetto sono parametri altamente dipendenti dalle regole culturali e dalle prassi locali, e generano regole a volte incomprensibili dall’interno della propria visione culturale.

Non è praticamente possibile fornire regole certe per ogni cultura con la quale si entra in contatto, anche perché le culture variano oggi molto più rapidamente grazie ai media globali, e non si può dare per scontato che un soggetto adotti esso stesso le regole del sistema del quale è parte.

Alcune regole generali della negoziazione interculturale pertanto sono dettate dal semplice buon senso, mentre altre devono essere acquisite da soggetti informati sulla cultura locale. Le regole minime di cortesia sono:

  • chiedere a soggetti informati come le persone desiderano essere chiamate
  • chiedere direttamente alle persone come desiderano essere chiamate, in mancanza di informatori;
  • non abbreviare il nome (non usare nomignoli) o usare il nome di battesimo senza il permesso diretto del soggetto;
  • usare titoli quali “Mr.” o “Miss.”, o altri titoli di cortesia, specialmente con interlocutori più anziani;
  • rispettare i ruoli (es: Presidente, Direttore) anche con persone più giovani che ricoprono ruoli istituzionali;
  • evitare di interrompere.

Le regole di deferenza e contegno si esprimono sia sul piano verbale, che con la comunicazione non verbale, ad esempio con un accenno di inchino nell’atto della stretta di mano, evitando generalmente manifestazioni smodate e pacchiane, ma soprattutto informandosi su quali comportamenti risultano normali o invece offensivi nelle culture altrui.

Prendere per scontati i precetti culturali senza saper capire la situazione rischia di produrre errori. Le regole di cortesia sono quindi da valutare con estrema attenzione al contesto.

Gli assi ideali che congiungono due soggetti impegnati nella conversazione vengono chiamate linee di conversazione.

  • Interrompere due persone che parlano significa rompere la loro immaginaria linea di conversazione.
  • Dare il turno ad una persona significa stabilire una linea di conversazione tra se stessi e un altro soggetto.
  • Invitare due persone a confrontare un punto significa stabilire una linea di conversazione tra i due soggetti.

Le linee di conversazione possono essere sia manifeste ed evidenti (tramite il sistema verbale) che sotterrane e sottilmente mascherate (tramite il sistema non verbale, segnali, gesti, cenni).

I meccanismi di gestione dei turni di parola sono estremamente complessi, sebbene praticati da ciascuno di noi ogni giorno.

Il flusso informativo che proviene dagli interlocutori è estremamente prezioso, e richiede l’abbandono di una “strategia di inondamento informativo” tipica della vendita aggressiva, verso una strategia dell’ascolto.

Il training alla gestione dei turni sviluppa le capacità del negoziatore nel:

  • riconoscere i meccanismi di gestione dei turni negoziali;
  • saper come entrare nella conversazione rispettando le regole;
  • identificare i momenti e strategie di ingresso e di uscita dalla conversazione;
  • creare le mosse di riparazione adeguate (repair) a fronte di mosse che possono essere percepite come offensive;
  • applicare una leadership conversazionale, consistente nel prendere le redini dei turni e divenire gestore di turni.

Mentre il problema dei turni riguarda soprattutto il “chi parla”, la gestione dei contenuti riguarda soprattutto il “di cosa si parla”.

Distinguiamo innanzitutto le capacità di topic setting (fissare gli argomenti conversazionali), da quelle di topic shifting (letteralmente, “slittare di argomento”, “spostare l’argomento”). Entrambe le strategie si inseriscono in una più generale abilità di “gestione dei contenuti” (content management) della conversazione.

Tra le competenze di topic-shifting e content management si collocano:

  • la capacità di riconoscere “di cosa stiamo parlando”: dettagli, visioni, aspirazioni, richieste, offerte, dati, emozioni.
  • la capacità di generare fasi diverse della conversazione, ad esempio saper produrre un adeguato small talk (chiacchiere su argomenti di interesse vario, convenevoli) per riscaldare il clima conversazionale, capire se e quando ricorrere allo small talk o quando entrare direttamente sul merito; saper distinguere le fasi di apertura e raccolta informativa dalle fasi di chiusura e concretizzazione;
  • la capacità di far procedere la negoziazione lungo assi di contenuto desiderati o prefissati, seguire un ordine del giorno o uno schema mentale;
  • la capacità di modificare i contenuti della conversazione direttamente sulla base di quanto emerge durante l’interazione (modifiche contestuali, adattamenti situazionali, on-the-fly).

Il ricentraggio della conversazione è una variante “dura” delle tecniche di content management e topic-shifting. Il ricentraggio consiste nel riportare la conversazione su punti che le controparti non stanno considerando, o dai quali vogliono sfuggire, o che semplicemente non riescono a cogliere.

Il ricentraggio può essere preceduto e seguito da adeguate mosse di repair (riparazione, scuse, anticipazione). Nei casi estremi il ricentraggio può anche avvenire senza far ricorso a repair, generando in questo modo una situazione pre-conflittuale che obbliga la controparte a scegliere se accettare un ruolo di sottomissione conversazionale o non accettarlo e porsi in conflitto aperto.

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Per approfondimenti vedi:

Analisi della conversazione e mosse conversazionali

Articolo estratto dal testo “Negoziazione Interculturale. Comunicazione oltre le barriere culturali“, copyright FrancoAngeli Editore e Daniele Trevisani, pubblicato con il permesso dell’autore.

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Di seguito introduciamo gli strumenti e i metodi per l’analisi della conversazione, studio fondamentale per capire come migliorare la negoziazione.

Per avviare una analisi seria e produttiva della negoziazione, dobbiamo innanzitutto distinguere almeno tre fasi diverse:

  • fase di preparazione alla negoziazione: briefing, raccolta di dati, analisi degli interlocutori e delle posizioni, preparazione di una piattaforma negoziale da discutere, preparazione dell’elenco delle argomentazioni e ordini del giorno, role-playing di preparazione negoziale, sviluppo e test delle action-lines (linee d’azione);
  • fasi di negoziazione comunicativa e front-line: la fase del contatto face-to-face;
  • fasi di analisi e debriefing: analisi degli esiti della negoziazione preparazione alle fasi successive.

La fase di preparazione richiede lo studio del numero più ampio possibile di informazioni affinché sia possibile entrare nella fase di contatto con cognizione di causa (consapevolezza situazionale) e conoscenza degli elementi culturali di base (consapevolezza culturale).

La fase di negoziazione, soprattutto nel face-to-face, rappresenta il terreno negoziale, il “momento della verità” in cui avvengono le azioni più significative, e poiché avvengono “durante” la conversazione, irreversibili.

La fase di debriefing serve per metabolizzare le informazioni e comprende (almeno)

  • un debriefing comportamentale: cosa è accaduto là, analisi dei propri comportamenti, ricerca degli errori, analisi dei comportamenti altrui, e
  • un debriefing strategico: implicazioni pratiche, analisi degli esiti, preparazione delle prossime mosse.

La negoziazione in genere richiede diversi cicli di preparazione-contatto-debriefing, per cui possiamo assimilarla ad un processo ciclico.

La Conversation Analysis (Analisi della conversazione) è una delle discipline utilizzate nelle scienze della comunicazione per comprendere come le persone interagiscono nei rapporti faccia-a-faccia.

Dal punto di vista scientifico si occupa di analizzare come le persone gestiscono i turni conversazionali, come cercano di interagire conversando, ma dal punto di vista pratico le applicazioni in azienda della AC sono estremamente rare, e praticamente assenti sono le “implicazioni pratiche”, il suggerimento sul “cosa fare” per negoziare, e ancora meno su come farlo a livello interculturale.

L’AC è stata rivolta soprattutto alle interazioni sociali o personali e molto meno ai dialoghi tra aziende.

Dal punto di vista linguistico, utilizzando alcuni prestiti dalla AC e numerose addizioni originali, nel metodo ALM cerchiamo di “smontare” la conversazione analizzandola come un insieme di atti conversazionali, per studiarne la struttura e applicarla ai problemi concreti delle aziende e organizzazioni che devono negoziare efficacemente.

Dal punto di vista semiotico, possiamo chiederci (1) quali siano i significati e interpretazioni di senso che ciascun attore attribuisce alle singole mosse, sul piano della relazione (semantica relazionale), e (2) quali sono gli effetti pratici sulla relazione stessa (pragmatica relazionale).

Dall’analisi delle mosse conversazionali sino ad interi brani di interazione, è possibile sviluppare le capacità dei manager e negoziatori (1) nella decodifica della conversazione, e (2) nell’acquisizione di maggiori capacità conversazionali. Inoltre, possiamo formare e acculturare i negoziatori a produrre una strategia conversazionale più efficiente e consapevole anche all’interno della propria cultura di partenza.

Le mosse conversazionali rappresentano specifiche azioni o “emissioni” poste in essere da un interlocutore.

Alcune mosse conversazionali (non definite in questi termini nei lavori di AC, ma da una nostra interpretazione estensiva) sono, per esempio:

  • affermare,
  • anticipare,
  • attaccare,
  • cedere il turno,
  • chiedere una precisazione, fare domande di puntualizzazione,
  • chiedere per ampliare, fare domande di apertura
  • ecc..

Ogni cultura fa propri alcuni di questi repertori e li amplia, rigettandone altri, o relegandoli a pochi ambiti comunicativi.

Ogni mossa è correlata sia alle mosse precedenti del soggetto, che alle mosse altrui.

Nel campo intra-culturale esistono specifici repertori e regole conversazionali generalmente condivise, mentre in campo interculturale aumenta la diversità anche per via delle diverse modalità con cui in ogni cultura vengono gestite le mosse conversazionali.

In termini negoziali, a seconda della valenza relazionale, possiamo prestare attenzione soprattutto a:

  • mosse di avvicinamento (segnali di simpatia, amicizia, affetto, volontà di collaborare, segnali di unione), e
  • mosse di allontanamento (distacco, antipatia, rifiuto, volontà di tenere le distanze).

Sotto il profilo dei contenuti della conversazione negoziale, invece, è importante distinguere tra:

  • mosse di apertura (esplorazione informativa, allargamento, ampliamento del campo conversazionale), e
  • mosse di chiusura (tentativo di conclusione, di concretizzazione);

ed ancora tra:

  • mosse di ascolto (empatia, domande, raccolta di informazioni), e
  • mosse di proposizione (affermazioni, posizioni, richieste).
libro "Negoziazione Interculturale" di Daniele Trevisani

Per approfondimenti vedi: