Formare il Team di Vendita – Articolo e video. Corso di Formazione Vendite Complesse

Copyright. Articolo estratto dal volume Strategic selling. Psicologia e comunicazione per la vendita consulenziale e le negoziazioni complesse, Franco Angeli editore, Milano.

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Team di vendita ad alte prestazioni

Se, come dice il nome, le vendite e negoziazioni che affrontiamo sono davvero “complesse”, quindi complicate, non possiamo sperare che una singola persona sposti la montagna e compia un lavoro immane da solo.

Dobbiamo tenere conto del fatto che più persone saranno coinvolte in un progetto-cliente. Quando il cliente è una multinazionale e la vendita dipende da più decisori, ma anche se la vendita è destinata ad una media impresa familiare in cui intervengono più influenzatori, è bene mettere in campo un team e non sperare che una persona da sola faccia ogni cosa.

Quanto più è alta la posta, tanto più serve la capacità di costruire un “team di vendita” veramente affiatato, che includa tutte le persone che avranno rapporti con quel cliente.

Un Sales Team ad Alte Prestazioni è obiettivo definitivo e primario di ogni azienda proiettata verso un futuro di successo.

Le vendite complesse raramente si conducono in solitudine.

Come minimo, nella presentazione di offerte, possono intervenire progettisti, tecnici, amministrativi, persino consulenti esterni, ed entrare anch’essi in relazione con il sistema-cliente senza rendersi conto di essere – in quel momento – dei tasselli di un mosaico complesso.

Un mosaico tutto centrato attorno alla vendita in corso, in una rete di relazioni che può diventare tanto fragile quanto un castello di carta, tanto difficile da costruire quanto rapida da far cadere con un semplice errore comunicativo, una disattenzione, un gesto sbagliato, una dimenticanza, una scortesia anche involontaria.

Dobbiamo quindi considerare due aspetti fondamentali: (1) per far si che le persone si comportino come vogliamo serve leadership, una leadership autorevole che faccia rispettare, nel team di vendita, le regole del gioco; (2) non tutto dipende dal leader: i membri del team, come sottolinea Muzzarelli[1] devono fare la loro parte. Non devono aspettarsi che il “capo” sia onnipotente ma attivarsi in prima persona, non essere attendisti passivi, diventare problem solver, giocatori di una squadra. Questo significa anche comprendere bene cosa stiamo facendo, e perché: capire se dobbiamo agire in un modo piuttosto che in un altro, senza che questo sia vissuto come un’imposizione.

Esiste poi un altro aspetto che qualifica le vendite complesse: si svolgono spesso con o contro aziende importanti e multinazionali, veri colossi, con inevitabile aumento nello squilibrio dei rapporti di forza.

Ogni buyer di multinazionali è formato costantemente, è un professionista, un atleta aziendale, un agonista della trattativa, allenato sottoposto a “corsi di acquisto e psicologia della negoziazione” molto frequenti e costanti.

I buyer professionali vengono formati per apprende a rompere il potere negoziale del venditore, annullare i margini di manovra altrui.

Farlo diventa un gusto, anche a discapito di ogni teoria win-win.

In specifici corsi, e questo accade soprattutto nelle multinazionali, il buyer apprende strategie per far sentire il venditore inutile o comparabile con altri, sostituibile, generare la sensazione che l’azienda venditrice sia una tra le tante, una sorta di commodity come il grano, l’acqua o la soia (le tecniche PICOS, o meglio le deformazioni che ne sono seguite, sono un esempio sul quale il nostro lavoro si è concentrato a lungo).

Queste tecniche sono finalizzate a creare ansia nel venditore, senso di insicurezza, sentirsi comparato con altri venditori, fino a portarlo in stato di tensione tale da far “calare le difese” e i prezzi.

Il negoziatore o buyer professionale impara strategie per ottenere informazioni dai venditori e dai tecnici, ed utilizzarle contro di loro.

Svolge ricerche per capire chi ha di fronte e che strategie ha usato finora. Usa la Business Intelligence, prepara una strategia.

Capire con chi si ha a che fare, distinguere scenari veri da favole d’azienda è uno dei compiti principali della vendita consulenziale. E farlo dentro un team che conosce le stesse tecniche e parla la stessa lingua, anziché farlo da soli, è enormemente più facile, anche solo per il fatto di sapere di non essere soli.

Capire i motivi delle strategie comportamentali adottate dai buyer o dai decisori richiede sia saggezza che preparazione. Richiede il coraggio del Gladiatore che sa di dover lottare contro un ciclope, ma proprio per questo decidere di usare strategia e non improvvisare.

Capire chi decide, capire chi comanda, capire chi influenza chi, richiede non solo doti comunicative ma doti di analisi, di Business Intelligence.

La raccolta di tante informazioni, il presidio dei contatti, la costruzione delle condizioni atte a generare la chiusura positiva di un progetto, hanno più possibilità di successo se affrontati in team. Un team con una leadership chiara, valori comuni, conoscenze tecniche condivise, e una buona formazione che ci aiuti a parlare lo stesso linguaggio e manovrare la nave davvero come una squadra affiatata.

Questo è il mondo della vendita consulenziale. Questo è il terreno in cui ci si muove. E in questo scontro si può essere preparati o impreparati, naif o analisti, dilettanti o professionisti. A noi la scelta.

[1] Muzzarelli, Francesco (2010), Io e il capo, Il Campo, Bologna, 2010

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Copyright. Articolo estratto dal volume Strategic selling. Psicologia e comunicazione per la vendita consulenziale e le negoziazioni complesse, Franco Angeli editore, Milano.

Video sul tema Formare Team di Vendita ad Alte Prestazioni

Le Vendite Complesse

Copyright. Articolo tratto dal testo: Strategic selling. Psicologia e comunicazione per la vendita consulenziale e le negoziazioni complesse. Milano, Franco Angeli editore.

Vendere in ambienti complessi è possibile solo dopo aver capito dove si situano i gap, le dissonanze, le vulnerabilità, il “non detto”, le molle psicologiche che possono far scattare un acquisto, nella intricata rete di decisori e influenzatori. Ed è un compito che richiede formazione.

Diventano essenziali quindi non soltanto i training per l’espressività (farsi capire, saper presentare con efficacia), ma soprattutto training che coltivano le doti di ascolto attivo, analisi tattica ed empatia strategica.

Tutto questo fa parte della sfera di competenza della psicologia strategica.

La psicologia strategica è la scienza che si occupa di come generare risultati attraverso azioni comunicative e tattiche (e non, come nel caso della psicologia clinica, curare disturbi psicologici).

La psicologia positiva è una branca delle scienze psicologiche che si occupa di come generare un atteggiamento positivo in sé stessi e nel gruppo, motivazione, voglia di vivere, capacità di analisi e costruzione attiva dei fattori che possono portare una persona a raggiungere risultati, stato di benessere interiore, e resilienza (capacità di apprendere dagli errori e rialzarsi dopo un insuccesso).

La vendita consulenziale non è un insieme di procedure, è un modo di essere analisti e strateghi che attinge a piene mani alla psicologia positiva e alla psicologia strategica.

Il metodo cui stiamo lavorando unisce le tecniche della psicologia strategica e della psicologica positiva.

Lo scopo è sviluppare una mente da analista e un modo di essere “stratega positivo”: una persona che utilizza la strategia, compie analisi, apprende dagli errori, considera la sua attività come un grande laboratorio di ricerca, riesce ad immettere energie positive nel suo lavoro, ricavando gratificazione dal modo con cui lavora più che dalle aspettative altrui.

Questo modo di essere si nutre della volontà di capire, di analizzare, di comprendere, anche e persino mentalità diverse, antitetiche, o distorte, strane mappe di potere, personalità razionali e personalità contorte, irrazionali, confusionarie, entrare in sistemi decisionali noti o invece immergersi in sistemi-cliente strambi, inusuali, dissonanti, senza farsi spaventare da questi, ma anzi accettandoli come “oggetto di ricerca” e sfida professionale.

Mettersi il “camice bianco” dell’analista è fondamentale per capire i sistemi-cliente e i varchi che si possono aprire per generare una vendita non solo sporadica, ma continuativa.

La vendita consulenziale è un approccio psicodinamico alle tecniche di vendita, centrato sul concetto di empatia strategica e di counseling d’acquisto (consulenza verso i bisogni, analisi dei bisogni espressi ed inespressi).

Secondo il modello della scuola consulenziale di vendita, l’obiettivo di una vendita è di attivare una forte relazione empatica con il cliente, essere di aiuto verso i bisogni espressi, far emergere il lato inespresso, e far precedere alla vendita vera e propria un’importante fase di analisi, di ascolto attivo, di comprensione, attivando una “percezione aumentata” (Extended Cognition).

Queste capacità provengono dalla psicologia clinica, in particolare dalle tecniche del colloquio clinico, dell’intervista in profondità, dalla “terapia centrata sul cliente” di Carl Rogers, che utilizza gli strumenti fondamentali della riformulazione verbale ed emotiva, senza la quale non potremmo mai sapere se siamo “connessi” o distanti dal vissuto del cliente[1].

Nella vendita consulenziale Business to Business non può esistere conclusione di vendita senza analisi dei processi aziendali o psicologici che rendono  un certo prodotto – o soluzione –  importante.

Perché qualcosa diventa importante? Perché ora? Perché non ieri? E come ha risolto il problema sinora il cliente? Quanto è soddisfatto? Che differenza esiste tra ciò che dice e ciò che sappiamo? O tra ciò che dice a voce e ciò che traspare dal suo volto o dall’osservazione della sua azienda? Tra quanto si è detto in riunione e quanto si sente dire nei corridoi?

Possiamo entrare in un livello di relazione tale da far “aprire” il cliente e tirar fuori i veri bisogni, anche quelli non detti?

Per farlo servono vere e proprie metodologie e tecnologie di analisi psicologica. Ad esempio, la Consulenza di Processo (Edgar Schein)[2] offre numerosi spunti, ma nessuna scuola in sé è sufficiente. Per affrontare il mondo delle vendite complesse dobbiamo entrare in un territorio di sperimentazione.

La vendita consulenziale non ha alcuna regola prefissata e rigida, non esistono concetti rapidi o giochi ipnotici, o altre scorciatoie comportamentali: esistono solo tante competenze da apprendere, provare sul campo, per poi ritornare ad apprendere, in una palestra professionale che è anche e soprattutto palestra di vita.

Dovremo sempre tenere alto il fronte della Psicologia Positiva, come nuova scienza che può aiutarci a trovare nuove vie della crescita individuale.

La psicologia positiva ambisce alla coltivazione di uno stile di vita e di pensiero positivo, lo sviluppo delle energie mentali, la crescita dell’ottimismo e dell’ottimismo appreso[3], per costruire gli atteggiamenti che ci servono ad affrontare un mestiere duro ma ricco di enormi soddisfazioni.

[1] Per alcuni riferimenti bibliografici su Carl Rogers, vedi bibliografia a termine volume.

Rogers, C. R. (1977), Carl Rogers On Personal Power, Delacorte Press, New York. Trad. it: Potere Personale. La forza interiore e il suo effetto rivoluzionario, Roma, Astrolabio, 1978.

Rogers, C. R. (1951), Client-Centered Therapy: Its Current Practice, Implications, and Theory, Houghton Mifflin, Boston

Rogers, C. R. (1961), On becoming a Person, Houghton Mifflin, Boston.

 

[2] La metodologia della Consulenza di Processo è strettamente derivata dagli studi di Psicologia Umanistica di Carl Rogers, ed è in grado di inquadrare i processi evolutivi che il cliente vive, e le sue dinamiche aziendali da un punto di vista evoluzionistico.

Tuttavia, si tratta di un metodo destinato originariamente alla consulenza di Direzione Aziendale. La sua applicazione alla vendita consulenziale va creata (ed è il nostro compito), va appresa, va studiata, e serve una formazione forte, professionale.

[3] Citiamo le opere di Myers, D. G. (1993), The pursuit of happiness: Discovering the pathway to fulfillment, well-being, and enduring personal joy, Avon, New York.

Seligman, M. E. P. (1998), Learned optimism: How to change your mind and your life (2 nd ed.), Pocket Books, New York.

Seligman, M. E. P., & Csikszentmihalyi, M. (2000), Positive psychology: An introduction. In: American Psychologist, 55, 5-14.

Anolli, Luigi (2005), L’ottimismo, Il Mulino, Bologna.

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Copyright. Articolo tratto dal testo: Strategic selling. Psicologia e comunicazione per la vendita consulenziale e le negoziazioni complesse. Milano, Franco Angeli editore.

 

Psicologia delle Emozioni. Un nuovo modo di vedere le emozioni e le performance. Emozioni Alfa ed emozioni Beta

Un nuovo modo di vedere le emozioni e le performance. Emozioni Alfa ed emozioni Beta

Copyright. Articolo a cura di Daniele Trevisani www.danieletrevisani.it Testo elaborato con modifiche dall’autore, tratto dal libro Self-power. Psicologia della motivazione e della performance, Franco Angeli editore. https://amzn.to/32ZDZJo

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Divertiti.
Ricorda, amico mio, di goderti il progetto così come il suo risultato,

perché la vita è troppo breve per riempirla di energia negativa.

Bruce Lee

 

La “soglia di efficacia personale” rende gli obiettivi facili o difficili

L’intera questione delle emozioni alfa e emozioni beta ruota attorno a:

  • vivere intensamente il progetto, la via, il percorso – emozioni beta – come il valore di ogni falcata e di ogni atto di respirazione nella corsa, e
  • cosa proviamo per il risultato finale che vogliamo raggiungere o che ci assegnano – emozioni alfa, esempio, cosa proviamo verso l’idea di tagliare il traguardo o porci un tempo-obiettivo per correre una maratona

I mix emotivi che si generano nelle situazioni reali. Es, volere il risultato ma volerlo subito e detestare il percorso di costruzione che ti ci porta, oppure amare il viaggio sino a considerare irrilevante la meta, e tante altre condizioni intermedie.

Queste “faccende” sono talmente importanti per le performance, e piene di sfumature, che vanno affrontate obbligatoriamente, se vogliamo mai avere speranza di compiere performance davvero eccezionali ma anche avere un vissuto appagante nella vita di chi le compie.

Si, a volte diciamo che il viaggio è persino più appagante della meta. Ma per chi si occupa di performance, queste semplificazioni sono solo l’inizio. Vanno approfondite.

La tematica del raggiungimento di obiettivi è ampiamente trattata in campo strategico e aziendale.  Obiettivi. Obiettivi. Obiettivi. Tutto ruota attorno agli obiettivi, sino a perdere di vista chi è che li deve raggiungere – esseri umani e non macchine – e quali energie mentali servano, in che stato sono queste “macchine”.

Immaginate di dare un obiettivo semplicissimo ad una persona depressa. Una persona realmente depressa troverà difficile persino alzarsi dal letto.

L’obiettivo diventa semplice o facile in funzione di dove si posiziona la soglia di efficacia personale.

Figura 1 – Posizione di diversi obiettivi rispetto alla soglia di efficacia personale

psicologia delle emozioni e self empowerment - i diversi tipi di obiettivo

Ognuno di noi può esercitarsi nell’individuare:

  • Obiettivi di tipo A1: quello che sento di poter fare con assoluta tranquillità, qualcosa di “tranquillo”, niente di sfidante per me.
  • Obiettivi di tipo A2: quello che sento di poter fare ma mi richiede un impegno e attenzione particolari. Rientra comunque tra “ciò che sento di poter fare”.
  • Obiettivi di tipo B1: obiettivi “quasi alla portata”, ciò che riuscirei a fare bene ma solo in parte, e sento che per poterlo fare bene devo ancora apprendere qualcosa, o mi serve ancora qualche ingrediente.
  • Obiettivi di tipo B2: obiettivi con larga probabilità di fallimento, temi su cui qualcosa conosco, qualcosa so fare, ma per raggiungerli sento che devo ancora apprendere molto, li sento ancora molto lontano e difficili.
  • Obiettivi di tipo C: non è fattibile ora, ma non è molto lontano da quello che sento di poter fare, se iniziassi ad esercitarmi. Per ora è fuori dalla mia portata ma non è detto lo sia per sempre.
  • Obiettivi di tipo D: troppo lontano, troppo difficile, impossibile per me, adesso e per sempre.

 

L’asticella con cui misuriamo questi obiettivi diventa il Potere Personale.

Figuriamoci cosa accade quando diamo un obiettivo ad una persona demotivata. O, se lo riceviamo noi stessi e non ci crediamo. Cosa facciamo?

Possiamo cercare di aumentare il nostro Potere Personale, alzare l’asticella con cui misuriamo gli eventi, o abbandonarne persino l’idea. Cosa fare, in questo caso, diventa un modo di vivere la vita.

Obiettivi ed emozioni

Le emozioni determinano “a cosa” dedichiamo il nostro tempo migliore, le energie più belle, cosa facciamo più volentieri, e a quali azioni dedichiamo meno tempo possibile, sino al punto di negarle o posticiparle sino alla morte.

Il mondo del time management, la gestione del tempo, e più in generale delle risorse limitate – fa troppo conto su fogli di Excel e poco conto sul mondo delle emozioni che proviamo nel fare qualcosa, o nel dirigerci verso uno scopo.

Sembrano due terreni diversi, ma in realtà lo sfondo emotivo è il vero substrato dei risultati.

Noi dedichiamo il nostro tempo migliore e le nostre risorse migliori a ciò che ci nutre, a ciò che ci gratifica, e fuggiamo tutto il resto.

Una cultura della consapevolezza deve portare le persone ad essere più consce di quali obiettivi o stati vuole raggiungere, e di come utilizza il suo tempo. Una scarsa consapevolezza vede invece le persone in uno stato di divario, di scostamento, tra ciò che desideri e come utilizzi realmente il tuo tempo.

Percepisci una dissonanza, un allarme, ogni volta che senti di dedicare tempo a qualcosa che non senti essere la tua vera vita. O cerchi un perchè in quello che fai, e questo perchè non lo trovi o fai sempre più fatica a trovarlo.

La ricerca del perchè, la ricerca di un bisogno di “senso” è sacra. Si tratta solo di ascoltarla.

In molte aziende ci si dedica alla pianificazione solo quando si è obbligati, mentre guidare un “muletto” o una ruspa gratificherebbe di più. Riempiamo le giornate – e a volte interi brani di vita –  a correre come formiche anziché concentrarci su cosa è importante. Sul cosa fare e sul perché.

Cerchiamo invece di impegnarci in una vocazione o interesse, e impariamo a sentire il fluire delle energie, la dove prima vedevamo solo azioni vuote. Tutto cambierà.

Emozioni Alfa ed emozioni Beta

Un approccio che centri il fronte emotivo di come una persona vive gli obiettivi, deve procedere verso due specifiche aree di analisi

le emozioni viscerali che sento verso un certo effetto o end-state: sento davvero mio un certo obiettivo? Lo sento come qualcosa che mi tocca davvero? Provo passione per un certo obiettivo o lo vivo come uno dei tanti momenti che mi tocca fare, o un momento obbligato? Lo sento importante per i miei valori?  Quanto? Voglio davvero vedere quel risultato finale raggiunto? Mi attiva emotivamente l’immagine di un certo risultato? La situazione che voglio si produca è davvero importante per me? O è un risultato più o meno burocratico, che non mi cambia la vita, che non mi attiva veramente? Denominiamo qui le emozioni verso l’obiettivo emozioni alfa.

Le emozioni che provo per le azioni necessarie (operations), le attività quotidiane, o i singoli step di un percorso. Mi annoiano le operazioni intermedie e vorrei solo vedere il risultato finale raggiunto? Provo invece piacere dell’azione, gusto del fare e dell’agire? Le operations mi annoiano o mi energizzano, le vorrei saltare o “guai a chi me le toglie”? Denominiamo qui le emozioni che accompagnano l’azione emozioni beta.

 

Il senso che le emozioni Alfa, quelle verso il lo scopo finale,  è ben espresso nella seguente metafora:

 

‎”Se vuoi costruire una nave non devi per prima cosa affaticarti a chiamare la gente a raccogliere la legna e a preparare gli attrezzi;

non distribuire i compiti, non organizzare il lavoro…

Ma invece prima risveglia negli uomini la nostalgia del mare

lontano e sconfinato.

Appena si sarà risvegliata in loro questa sete

si metteranno subito al lavoro per costruire la nave”.

(Antoine-Marie-Roger de Saint Exupéry)

Il leader o motivatore che  riesce a far visualizzare e apprezzare il risultato finale atteso, potrà generare motivazione autonoma.

Questa è una delle due strade.

Immaginiamo un vetraio di Murano, a Venezia, intendo nel produrre bicchieri artistici. Quanto è importante per lui arrivare a fine giornata ad avere prodotto X bicchieri (emozioni alfa)? Quanto sono importanti il gesto del produrre il bicchiere, del soffiare dentro alla cannuccia, del vedere il bicchiere prendere forma? Sono attività di per se gratificanti (emozioni beta)?

O ancora, esaminiamo il lavoro di un pittore. È mosso dal piacere di usare la tela e i colori, dall’idea di trovare un luogo o soggetto che lo ispira, o ogni singola attività gli è di peso e vorrebbe vedere il quadro finito prima possibile?

Ogni artista vive in modo diverso sia l’effetto da produrre (il quadro) che il modo di produrlo (le operations).

Le sfumature in questo campo sono molteplici.

Anche un pilota di aereo intento in una missione di salvataggio vive due momenti emotivi: sia voler vedere raggiunto un certo risultato strategico finale a cui contribuisce con la sua missione (salvare la persona), oppure essere ammaliato dal piacere del volare, energizzato dalle operazioni di volo, dall’adrenalina dell’azione, al di la degli effetti che l’azione avrà (essere parte di un processo).

Possiamo avere persino casi in cui non interessi assolutamente il perché della missione (emozioni alfa azzerate) ma interessi unicamente il fatto di farla bene, il piacere che si prova durante,  la totale gratificazione che accompagna il gesto (emozioni beta massimizzate).

 

Io non mi sono mai sentita tanto viva come dopo una battaglia dalla quale sono uscita viva e indenne. […]

È dopo aver vinto quella sfida che ti senti così vivo.

Vivo quanto non ti senti nemmeno nei momenti più ubriacanti di gioia o nei momenti più travolgenti d’amore.

Oriana Fallaci, da Accetto la morte ma la odio, 2006

Chi ha praticato boxe o arti di combattimento lo sa bene. Usciti dal ring e dopo una doccia sembra di avere un’altra occasione per vivere. Sembra che il mondo, prima ostile, sia diventato un posto migliore. Questa è una delle gratificazioni maggiori di chi fa sport estremi.

Ma entriamo nel mondo del lavoro, analizziamo le performance di un venditore: le emozioni alfa si attivano nel volere fortemente il risultato finale (vedere la vendita conclusa), le emozioni beta si attivano quando il venditore è emotivamente e positivamente coinvolto nella trattativa di vendita, nella strategia di preparazione, vede le trattative  in sé come attività comunicativa e persuasiva interessante, come relazione di aiuto, o come sforzo di condivisione, o come esercizio di tattica e strategia, come sfida con se stesso, o come palestra del proprio stato o condizione mentale (attivazione delle emozioni beta).

Lo stesso per uno scrittore: siamo attivati unicamente dall’idea di vedere il libro finito, o si prova piacere nello scrivere? Se nessuna delle due aree attiva la persona, non avremo mai uno scrittore compiuto. E  non avremo mai un buon libro.

Trattare di performance, di effetti da produrre, e di operazioni tattiche, tocca inevitabilmente il fronte delle emozioni soggettive.

Posso avere emozioni alfa plurime – più di una motivazione – verso la meta, ed emozioni beta plurime – più di una sensazione positiva collegata all’azione.

Per esempio, un formatore può avere emozioni alfa plurime se è interessato al compenso economico del suo lavoro, ma anche al vedere un corso terminato, e ad avere trasmesso bene i concetti che voleva lasciare. Allo stesso tempo può avere emozioni beta plurime: il piacere di avviare un contatto umano ad inizio attività, il piacere di vedere le persone all’opera durante, il gusto di un lavoro che scorre fluido e con un clima positivo.

Così come si arrabbierà quando qualcuno si comporta con maleducazione verso il formatore, verso altri studenti e verso la sacralità del momento formativo. E glielo dirà. Senza paura.

Agirò senza paura ogni volta in cui vorrò dire qualcosa in cui credo…

Daniele Trevisani ©

Quanto più le emozioni sia alfa che beta sono forti e numerose, tanto maggiore sarà l’attivazione verso lo scopo e la performance.

Chi non crede più a niente difficilmente riuscirà in qualcosa.

Quanto più invece sono assenti, deboli o invece negative le emozioni verso lo scopo o verso le attività da compiere, quanto più l’attività sarà considerata un peso o peggio una frustrazione, o verranno accettate passivamente riduzioni rispetto ai propri ideali, amputazioni e umiliazioni.

 

Ma vi sono momenti, nella Vita, in cui tacere diventa una colpa

e parlare diventa un obbligo.

Un dovere civile, una sfida morale, un imperativo categorico

al quale non ci si può sottrarre.

Oriana Fallaci

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Copyright. Articolo a cura di Daniele Trevisani www.danieletrevisani.it Testo elaborato con modifiche dall’autore, tratto dal libro Self-power. Psicologia della motivazione e della performance, Franco Angeli editore. https://amzn.to/32ZDZJo

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Psicologia strategica e semiotica del consumo

Psicologia strategica e marketing. Capire i significati del consumo e le costellazioni di acquisto, per fare Strategic Selling e centrare le strategie di marketing e vendita

Copyright. Articolo tratto dal testo: Strategic selling. Psicologia e comunicazione per la vendita consulenziale e le negoziazioni complesse. Milano, Franco Angeli editore.

Chi si occupa di comunicazione da tempo e per lavoro, sa bene che le persone non acquistano solo oggetti, ma “comprano” idee, concetti, immagini mentali, simbologie da esibire. Comprano per far contento qualcuno in azienda, o per conquistare un credito relazionale.

A volte comprano quello che non gli serve. A volte non comprano ciò che gli servirebbe davvero. Ma dietro ad ogni scelta, per quanto primitiva e irrazionale, si nasconde una logica, che una mente da analista può scoprire.

La Consumer Research (scienza del comportamento di consumo), in alcuni dei suoi esponenti di punta, primo di tutti il Semiologo David Mick, ha analizzato le connessioni tra i significati che attribuiamo ai prodotti e le nostre scelte di acquisto[1]. L’esito fondamentale di una grande mole di ricerche, che non possiamo altro che accennare, è il valore di “auto-regalo” che i prodotti assumono (self-gifting), una “carezza psicologica” che le persone si fanno concedendosi un certo prodotto, o un certo marchio, e il valore di “simbolico” che connette larga parte degli acquisti: l’acquisto come dimostrazione di potere, o di status, di differenziazione da… o di appartenenza ad un gruppo.

La Psicologia Semiotica del Marketing si occupa di comprendere le connessioni tra “segni” esterni (es. un marchio), significati esistenziali (cosa significa per me quel marchio o simbolo), e comportamenti di acquisto.

È attenta quindi ai simbolismi che le persone associano a un prodotto o un comportamento di acquisto, quali sono i segni e segnali ai quali un cliente presta attenzione, e che valore hanno per lui.

Senza l’analisi semiotica non potremmo mai afferrare, ad esempio, il legame ancestrale che lega moto e motociclista (la moto come mezzo di libertà), e lo vedremmo solo come mezzo di trasporto. Se entriamo nell’analisi di uno specifico marchio – perderemmo di vista il significato di ribellione, potenza e voglia di trasgressione (e tanti altri simbolismi) che un motociclista appassionato associa alla sua Harley Davidson.

Altri studi analizzano il valore dimostrativo o esibitivo che hanno i comportamenti specifici di acquisto, come il recarsi in un casinò a giocare o il gioco d’azzardo, i tanti “perché nascosti, dimostrativi e auto-dimostrativi” che conducono una persona a farlo[2]. Questi studi esaminano soprattutto i bisogni profondi cui risponde questo atto, nonostante si tratti di un comportamento che esce di ogni logica apparente.

Sempre in campo semiotico, si producono analisi interessantissime, quali quelle sulle “costellazioni di consumo”: i “raggruppamenti” nei quali troviamo mescolati marchi, prodotti, tipologie di persone e strati sociali. Uno studio di Chaplin e Lowrey[3] dimostra che i bambini e ragazzi sono in grado di distinguere con precisione queste “costellazioni”, e compiono scelte di acquisto correlate, hanno “fiuto” per il mondo sociale che li circonda, come emerge da questa intervista fatta dai ricercatori:

 

Il mio vicino di casa, . . . è così “Crunchie” . . .hai presente… vegetariano, ambientalista, superintelligente… ma così svaccato.. si mette le Birkenstocks, guida una Prius, mangia solo cibi organici… ci scommetto che lava i panni con il detersivo Seventh Generation. . . l’”Accarezza Alberi”… non so se mi spiego… “ [ride].

(ragazza 12enne intervistata nello studio di Chaplin e Lowrey, 2010)

 

Una costellazione di consumo è definita come un gruppo di “prodotti complementari, specifici marchi, e/o attività di consumo utilizzate per costruire, dare significato o assumere uno specifico ruolo sociale” (Englis & Solomon)[4].

Per fare un esempio nazionale, sulla riviera romagnola – in una ben precisa località – si distinguono, entro una tribù sociale comune, i ragazzi o adulti che frequentano il Papeete (stabilimento balneare dei vip), portano i sandali infradito di Armani o Prada, hanno costantemente occhiali da sole in testa anche se piove, bevono cocktail rigorosamente esotici come il Mohito (guai bere un normale The… in quanto farebbe uscire da quella costellazione di persone!).

Questa costellazione non mangia a tavola alle 19,30 in pensione o albergo in mezzo ai comuni mortali, come fanno le famiglie normali, ma verso quell’ora consuma un ape (che sta per aperitivo o aperi-cena), stuzzicando olive e salatini accompagnati da spumanti o cocktail.

Alla notte la costellazione frequenta una specifica discoteca “di tendenza”, dove i buttafuori son addestrati (è un dato reale, avendoli intervistati di persona) a selezionare e scremare chi far entrare o tenere fuori in base al grado di “firme” e look delle persone in coda all’ingresso.

Parcheggiare davanti a quella discoteca con una normale auto da famiglia e magari un portapacchi da valigie montato, sarebbe una sorta di insulto, e i buttafuori non li lascerebbero nemmeno entrare.

A duecento-trecento metri da questa “costellazione”, nella località balneare più vicina, abbiamo il contrario. L’esatto contrario: una tribù di famiglie che si armano di secchielli e retini da spiaggia, pescano granchi, hanno sandali di cuoio o di plastica “non firmati”, bevono the o succhi, giocano a bocce in spiaggia, si alzano quando il popolo dei vip va a dormire e la sera fanno una passeggiata sul viale con i bambini, acquistano al mercato e fanno la spesa al supermercato locale.

Verso la mezzanotte (prima sarebbe disdicevole, segno di essere poco “in”), la costellazione dei vip o “pseudo-vip e aspiranti tali” esce per la serata, mentre la costellazione delle famiglie va a dormire e chiude la giornata familiare.

Due mondi vicini fisicamente, ma completamente di fatto separati dal punto di vista esistenziale, del tipo di vita, e dei comportamenti di consumo.

[1] Gli studi fondamentali che aprono questo dibattito sono: Mick, D. (1991), Giving gifts to ourselves: A greimassian analysis leading to testable propositions. Marketing and semiotics. Selected papers from the Copenhagen Symposium. Copenhagen, Handelshojskolens Forlag.

Mick, D.G. & DeMoss, M. (1990), To Me from Me. A descriptive phenomenology of self-gifts, in Advances in Consumer Research, 17, 677-682.

Mick, D.G. (1986), Consumer research and semiotics: exploring the morphology of signs, symbols, and significante, in Journal of Consumer Research, 12, 196-213.

Mick, D.G. (1989), The semiotic motive in consumer behavior: recent insight from North American research, Paper presented at the 14th Annual Colloquioum of the International Association for Research in Economic Psychology, Sept. 24-27, Poland.

[2] Humphreys, A. (2010), Semiotic Structure and the Legitimation of Consumption Practices: The Case of Casino Gambling, in Journal of Consumer Research, October 2010.

[3] Chaplin, L.N & Lowrey, T.M (2010), The Development of Consumer-Based Consumption Constellations in Children, in Journal of Consumer Research, Vol. 36, February 2010

[4] Englis, B. G. & Michael R. Solomon (1995), To Be and Not to Be: Lifestyle Imagery, Reference Groups, and the Clustering of America, in Journal of Advertising, 24 (Spring), 13–28.

Englis, B. G. & Michael R. Solomon (1996), Using Consumption Constellations to Develop Integrated Communications Strategies, in Journal of Business Research, 37 (3), 183–91.

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Copyright. Articolo tratto dal testo: Strategic selling. Psicologia e comunicazione per la vendita consulenziale e le negoziazioni complesse. Milano, Franco Angeli editore.

 

Dott. Daniele Trevisani – Corso di Comunicazione – Le Distanze della Comunicazione 01 – Le 4 Distanze

Comunicazione efficace vs. incomunicabilità: Le 4 grandi distanze relazionali nella comunicazione

© articolo copyright dal volume “Parliamoci chiaro. Il modello delle quattro distanze per una comunicazione efficace e costruttiva“, Gribaudo-Feltrinelli editore, Milano, Verona.

Le quattro grandi distanze relazionali

La distanza tra persone è un fatto fisico, ma la fisicità è nulla rispetto alla distanza psicologica. Nel modello delle Quattro Distanze vengono esaminati i principali fattori che creano distanza relazionale, raggruppandoli in quattro grandi classi, utili per qualsiasi intento, sia di costruzione di rapporti ma anche di identificazione di incomunicabilità esistenti.

Queste grandi classi sono:

  1. le distanze e differenze di ruolo e identità tra comunicatori, incluse le differenze di personalità o stato d’animo;
  2. le distanze e differenze nei codici e stili comunicativi;
  3. le distanze e differenze valoriali, di atteggiamenti e credenze possedute;
  4. le distanze e differenze nei diversi tipi di vissuto personale, sia fisico che emozionale.

le 4 distanze della comunicazione secondo daniele trevisani

Una sola di queste variabili è sufficiente a creare incomunicabilità. La combinazione di queste è ancora più difficile da gestire, perché arriva a creare distanza relazionale forte.

La distanza relazionale è un fatto reale. Possiamo essere vicinissimi ad una persona (ad esempio in ascensore, o ad un semaforo) e disinteressarci completamente della vita di quella persona, e lui/lei della nostra. Quella persona sarà a noi “distante”.

Ognuno andrà per la sua strada, ognuno nella sua vita.

Succede anche nella strada. Passiamo a fianco di una persona in un marciapiede camminando, o in ascensore. Un lampo fugace di vicinanza fisica, ma nessun vero collante relazionale, anzi, il gelo. Spesso, nemmeno uno sguardo.

Puoi abitare in un palazzo con decine di famiglie e non essere andato oltre il “buongiorno” con qualcuno di questi, e con alcuni nemmeno quello. In altre situazioni, vi sono persone con le quali senti di poter raccontare tutto di te, o tu stesso ti metti a disposizione totale per un ascolto profondo, vero, interessato.

A quale grado di distanza siamo quindi con le persone cui teniamo? E a quale distanza relazionale siamo con le persone con cui dobbiamo o vogliamo lavorare, che si tratti di anni o di un singolo progetto di poche ore?

Anche quando un progetto è singolo e limitato nel tempo, nasce giocoforza il fenomeno della comunicazione nel team. In questo team ci saranno diversità, ci saranno persone che dovranno lavorare fianco a fianco, persone di provenienze professionali diverse, di culture diverse, ideologie diverse, codici comunicativi solo in parte condivisi, e il rischio di fallimento e di conflitto – se non anticipato – diventa molto alto.

L’attrito relazionale è un dato di fatto, anche nelle coppie di fidanzati, di sposi, di amici, di colleghi, e tra figli e genitori, e aumenta all’aumentare delle quattro distanze. È questo attrito che, portato all’ennesima potenza, ha generato nella storia disastri, lotte, guerre e devastazioni.

Se riconosciuto presto, invece, può essere gestito, e le relazioni umane possono prendere una piega completamente diversa, andando verso la Comunicazione Costruttiva, la comunicazione che sviluppa progetti, idee e valore. Possono anche generare una Comunicazione Positiva, relazionalmente nutriente, calda, accogliente, emotivamente pulita e arricchente. E allo stesso tempo, in queste condizioni, l’ascolto diventa un piacere, non un compito quasi impossibile.

A volte viviamo rapporti che solo apparentemente sono di vicinanza psicologica, ma che in realtà dimostrano tutta la loro falsità non appena un incidente critico fa emergere la reale distanza siderale di valori nei rapporti umani.

Tale distanza può essere ampiamente inconsapevole: possiamo credere di essere vicini ed essere in realtà molto lontani. Un falso indicatore di vicinanza è ad esempio la confidenza, l’eliminazione del “Lei” o di altre modalità di distanziamento linguistico.

Tutti sappiamo, però, come si possa conversare amabilmente con qualcuno che sembra amico e in realtà non lo è.

Anche matrimoni e amicizie vivono momenti di apparente distanza o apparente lontananza, le persone si “avvicinano” e si “allontanano” relazionalmente, come comete, in traiettorie a volte molto prevedibili, a volte le persone compaiono nella nostra vita come meteore brillanti nel cielo per poi sparire.

Quindi mettiamo in chiaro che la distanza non è solo questione di apparenza ma qualcosa di più profondo.

La distanza relazionale esiste, crea incomunicabilità, e, con incomunicabilità in corso, nessun progetto può davvero fare lunga strada.

 

Principio 1 – Gli elementi che incidono sulla comunicazione efficace e sull’incomunicabilità

La comunicazione diventa difficile quando:

  1. le persone non accettano i ruoli reciproci nella comunicazione, manca accettazione nelle identità reciproche che le persone vogliono assumere, le parti non si riconoscono e non si legittimano come controparti accettate;
  2. le distanze nei codici e stili comunicativi sono ampie, rendendo tecnicamente difficile o impossibile la comprensione dei significati della comunicazione stessa. I linguaggi sono poco comprensibili, vi sono termini sconosciuti, e significati non condivisi;
  3. vi sono divergenze valoriali, di atteggiamenti e valori, sia superficiali che in profondità, e il grado di differenza (quanta differenza) si amplifica tanto più quanto la comunicazione tocca i valori fondamentali di uno o più comunicatori, sino al punto che la posizione altrui venga percepita come inconcepibile e contraria rispetto ai propri valori;
  4. le parti sono caratterizzate da diversi tipi di vissuto personale, sia fisico che emozionale, con incremento dell’incomunicabilità al crescere di questa diversità, e non possiedono esperienze comuni né fisiche né emotive che possano fare da facilitatore.

 

La comunicazione diventa positiva ed efficace quanto più:

  1. le persone accettano i ruoli reciproci nella comunicazione, si crea accettazione nelle identità reciproche che le persone si danno (“accetto il tuo ruolo per come tu me lo presenti”), le parti si riconoscono e si legittimano reciprocamente come degne di un rapporto proficuo;
  2. le distanze nei codici e stili comunicativi sono ridotte o si riducono, progressivamente, rendendo tecnicamente più semplice la comprensione dei significati, basata su segni condivisi, linguaggi comprensibili, e significati condivisi;
  3. vi sono poche divergenze valoriali, o queste sono solo superficiali, mentre nei valori profondi si trova condivisione.
  4. le parti sono caratterizzate da un certo grado di “Common Ground” (terreno comune) nel vissuto personale, sia fisico che emozionale, e questo aumenta grazie ad esperienze condivise, rendendo la comunicazione più positiva ed efficace.

 

È abbastanza comprensibile e naturale il fatto che al crescere della distanza psicologica tra persone, aumenti l’incomunicabilità, ma prendere coscienza di questo non è sufficiente.

Occorre capire dove mettere mano per lavorare sull’incomunicabilità. Su quali variabili agire quindi? Come capire la distanza reale che esiste in un certo momento? Come ridurla?

In che ambiti è importante lavorare sulle Quattro Distanze? Questo tema merita un approfondimento.

 

© articolo copyright dal volume “Parliamoci chiaro. Il modello delle quattro distanze per una comunicazione efficace e costruttiva“, Gribaudo-Feltrinelli editore, Milano, Verona.

Rivista di Formazione e Potenziale Umano “Communication Research” Settembre-Ottobre 2020

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Corso di Vendita Strategic Selling 04 Dott. Daniele Trevisani – Formazione vendite seria vs. guru e pagliacci formativi

Prepararsi da professionisti

Esiste una grande confusione in campo aziendale su cosa sia la formazione. Alcuni pretendono di preparare negoziatori e venditori tramite un paio di ore di lezioni teoriche in cui vengono propinate teorie e concetti astratti, affidandosi a professori universitari che non hanno mai venduto niente in vita loro.

Altri si affidano a persone che li faranno camminare sul fuoco raccontandogli che questo li porterà a dominare l’universo, con l’effetto pratico di fargli bruciare i piedi (se va bene), o li trascinano in meeting di vendita in cui dovranno cantare e ballare come poveri deficienti deliranti.

Altri assegnano incarichi a società di consulenza blasonate (le tante Consulting), e sperano di risolvere il problema (avere negoziatori e venditori preparati) affidandosi a presunti Guru che mostrano diapositive sfavillanti, frasi ad effetto, autori dai nomi esotici e famosi. Utile, ma insufficiente.

Altri ancora puntano sul “fai da te”, facendo affiancare i giovani a venditori anziani, senza filtro, con l’effetto pratico di propagare e disseminare tutti i loro errori per generazioni e generazioni.

Più che una formazione classica, serve una forte “sensibilizzazione”, qualcosa che vada oltre le regole stereotipate. Ad esempio, imparare a vedere come noi reagiamo alle comunicazioni altrui, come funziona il nostro dialogo interno[1], capire come esaminare una conversazione e cogliere le sue mosse strategiche, preparasi ad essere analisti.

La formazione seria è una forma di apprendimento molto forte, parte da un’autoanalisi che nessun PowerPoint può sostituire, e ci chiede di fare i conti con chi siamo veramente.

Al contrario dei seminari tenuti dai “corsifici”, un buon coaching in profondità (coaching personale o team coaching) può aiutare la persona e il team a prestare attenzione a ciò che prima gli sfuggiva, e questo non ha niente a che fare con la formazione classica.

Bisogna aiutare le persone a muoversi da professionisti, a “pensare” come professionisti. La ricerca del Potenziale Umano che si nasconde in ogni persona non è né facile né immediata, lo sappiamo tutti benissimo. Ma, a volte, cerchiamo scorciatoie che non esistono.

Le situazioni in cui la comunicazione cambia le cose sono tante.

Possiamo avere un colloquio di lavoro nel quale si decide una svolta nella vita, nel quale far emergere chi siamo e cosa valiamo.

Gli effetti di ogni parola e di ogni gesto saranno sommatori e decisivi.

Lo stesso bisogno di essere comunicatori efficaci tocca il problema di trovare un finanziatore per progetto, o un sogno da concretizzare.

Tante situazioni, un denominatore comune: il risultato delle attività di comunicazione e negoziazione cambia la vita. Affrontare questo mondo intrigante richiede l’esame di molte variabili. Ma cerchiamo prima un tratto comune e valutiamo quali sono le poche certezze di cui disponiamo.

Una prima consapevolezza di fondo è il bisogno di una grande serietà in chi opera nel mondo della comunicazione e della negoziazione complessa: essere coscienti del fatto che dagli esiti di una trattativa strategica dipendono svolte di tipo professionale, effetti che cambiano la vita, propria o altrui.

Se condotte bene, gettano le basi per un futuro migliore. Se condotte male, producono danni enormi.

Una seconda certezza: per comunicare bene serve formazione specifica, l’abito mentale di chi si prepara alla negoziazione, dedica ad essa risorse mentali, la gestisce come un’attività professionale e strategica (approccio mentale del Get-Ready Mind Set), e non trascura i dettagli[2].

Una terza certezza è il bisogno di curare la “macchina” del venditore, negoziatore o comunicatore, ancora prima di preoccuparci delle sue prestazioni esterne. Una persona che sta bene, piena di energie fisiche e mentali, avrà ottime chance di esprimere anche il suo potenziale comunicativo. Al contrario, una persona fisicamente debilitata o esaurita, e psicologicamente stanca o che si sente fuori ruolo, non farà altro che errori continui.

Come sottolinea un collega e amico, importante psicologo e counselor italiano, allenatore della nazionale italiana di Apnea e di campioni del mondo di apnea, quando ci si “immerge” nelle relazioni e nelle negoziazioni si va incontro, come fa un apneista, anche a se stessi e al proprio inconscio.

Possono emergere paure o incongruenze, ansie e timori ragionevoli o irragionevoli, coscienti o subcoscienti.

Se questi ci bloccano, ci rallentano, ne subiremo gli effetti negativi.

Al contrario una persona che abbia fatto un lavoro profondo su di sé può “immergersi” tranquillamente sia in acqua che nella più difficile trattativa, senza perdere in consapevolezza emotiva e rimanendo sostanzialmente sereno nonostante l’ambiente difficile che lo circonda[3].

[1] Per il dialogo interiore nelle situazioni di consumo e scelta di acquisto, vedi Bahl, S. e Milne G. R. (2010), Talking to Ourselves: A Dialogical Exploration of Consumption Experiences, in Journal of Consumer Research, Vol. 37, June 2010.

[2] La preparazione mentale a compiti successivi, e l’utilizzo delle risorse mentali, nella Consumer Research, è stata affrontata in un articolo specifico. Vedi Bosmans Anick, Pieters Rik e Baumgartner Hans (2010), The Get Ready Mind-Set: How Gearing Up for Later Impacts Effort Allocation Now, in Journal of Consumer Research, Vol. 37, June 2010.

[3] Manfredini, Lorenzo (2010), Appunti di counseling, materiale didattico riservato, Associazione Olos e Istituto di Dinamica Mentale, Ferrara.

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